Il poema biblico dell'amore tra uomo e donna. Cantico dei cantici
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Il poema biblico dell'amore e il rapporto tra eros e agape. Una lode alle gioie della sessualità alla luce della volontà di Dio. Il Cantico e l'atteggiamento della chiesa odierna verso i problemi etici del nostro tempo. Che significato può avere, riguardo all'atteggiamento della chiesa odierna verso i problemi etici del nostro tempo, il fatto che la Bibbia canti l'amore "terreno"? Qual è il rapporto tra l'eros, ossia l'aspetto creaturale del nostro amore, e l'agape, ossia l'amore di Dio che si dona agli uomini?Questa gemma dell'antica poesia erotica, miracolosamente preservata nella Bibbia, è senza dubbio umana ma non "profana": è lode alle gioie della sessualità alla luce della volontà di Dio.Helmut Gollwitzer (1908-1993) è stato una figura di primo piano della teologia protestante.
ISBN: 9788870165197
Producer: Claudiana
Product Code: 9788870165197
Dimensions: 120 x 200 x 9 mm
Weight: 0,150kg
Binding: Brossura
Number of pages: 136
Language: Italian

Sample chapter

INTRODUZIONE
di DANIELE GARRONE

Nonostante i suoi soli otto capitoli, il Cantico dei Cantici è uno dei libri biblici su cui più si è scritto e discusso. In queste pagine introduttive cercheremo di tracciare una panoramica dei principali problemi del Cantico e delle soluzioni proposte per risolverli.
Ci limiteremo agli aspetti più strettamente esegetici; un’approfondita trattazione del Cantico dal punto di vista teologico è offerta dalle pagine di Helmut Gollwitzer.


IL CANTICO NELLA BIBBIA EBRAICA
E NEL CANONE

Il Cantico si trova nella terza sezione della Bibbia ebraica, quella degli “Scritti” (le prime due sono la “Legge” e i “Profeti”) ed è il primo dei cosiddetti “Cinque rotoli” (Cantico, Rut, Lamentazioni, Ecclesiaste, Ester). Nelle Bibbie cristiane il Cantico segue l’Ecclesiaste; ciò è dovuto all’influenza della traduzione greca dei Settanta, che ha appunto quest’ordine.
L’appartenenza del Cantico dei Cantici al canone ebraico (cioè alla raccolta dei libri normativi per la fede) non fu esente da discussioni. Ancora durante il I secolo e.v. c’erano rabbini che mettevano in dubbio la legittimità della presenza del Cantico nel canone. L’assemblea di Jamne (circa 90 e.v.) ribadì il carattere sacro e canonico del Cantico e da allora queste sue proprietà non furono più messe in discussione in ambito ebraico. è divenuto celebre il giudizio di Rabbi Aqiba: “Il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato dato ad Israele. Tutti i libri [biblici; N.d.R.] sono santi, ma il Cantico è santo dei santi” (Mishnah, Yadayim III,5).
La presenza del Cantico nel canone è spesso stata attribuita al fatto che ne sarebbe stata data un’interpretazione allegorica. In effetti la tradizione rabbinica ha praticato un’interpretazione fortemente allegorica, ma non c’è prova che essa abbia determinato il riconoscimento del Cantico come libro che “contamina le mani”, come dicevano i rabbini, cioè come libro sacro. Nel già citato passo di Rabbi Aqiba, egli, nel rifiutare i dubbi sul Cantico, non accenna all’interpretazione allegorica, ma si rifà semplicemente alla tradizione: “Nessuno in Israele ha mai messo in dubbio che il Cantico contamina le mani”.
Anche un altro giudizio di Rabbi Aqiba, spesso citato, secondo cui chi canticchia il Cantico nelle osterie e lo tratta come un canto profano non avrà parte al mondo a venire (Tosephta, Sanhedrin XII,10) non ci dice che un’interpretazione non allegorica sia contraria alla natura del Cantico come libro canonico. Rabbi Aqiba proibisce soltanto di usare un testo sacro in un contesto profano e di offenderne la dignità.
In mancanza di prove esplicite che sia stata l’interpretazione allegorica a garantire al Cantico la sua presenza nel canone, molti autori la attribuiscono al fatto che si pensava che il Cantico fosse uno degli scritti di Salomone, quindi uno scritto antico e autorevole.
Si è oggi definitivamente rinunciato a far discendere dalla canonicità del Cantico la necessità di interpretarlo allegoricamente e di rifiutare ogni altra interpretazione come contraria, non alla lettera del Cantico, quanto al fatto che esso, come libro sacro, dovrebbe avere un senso superiore. Questa era, fino a qualche decennio fa, la posizione ufficiale cattolica, oggi abbandonata. L’intenzione dell’autore e quel che egli intendeva dire vanno cercati nel testo stesso e non nel canone.
INTERPRETAZIONI
DEL CANTICO DEI CANTICI

L’interpretazione del Cantico dei Cantici ha costituito, soprattutto negli ultimi due secoli, un problema molto dibattuto. Neppure oggi esiste un’interpretazione da tutti condivisa in tutti i suoi aspetti, anche se è largamente prevalente tra gli studiosi la convinzione che si debba leggere nel Cantico innanzitutto quello che c’è scritto, cioè un inno all’amore tra uomo e donna. L’interpretazione allegorica, sia in ambito ebraico sia in ambito cristiano, è, salvo eccezioni, abbandonata.
Anche se possiamo farlo soltanto per sommi capi, conviene accennare qui ai principali filoni interpretativi. (Per ulteriori informazioni, si rimanda alle introduzioni dei commentari, in particolare a quella documentatissima di M. Pope, o agli studi citati di H.H. Rowley, da cui ho largamente attinto per questo paragrafo, e di E. Würthwein.)
Abbiamo innanzitutto il filone dell’interpretazione allegorica, quella cioè che scorge nel Cantico, al di là della lettera del testo, che sembra riferirsi semplicemente a un rapporto d’amore tra uomo e donna, la descrizione di una realtà più profonda, di grande significato teologico. Le vicende dei due amanti del Cantico sarebbero, per alcuni, un’immagine, per altri, soprattutto nell’antichità, un vero e proprio linguaggio cifrato, per esprimere qualcos’altro. L’interpretazione allegorica è quella predominante nella tradizione rabbinica e nel cristianesimo antico. Le varie interpretazioni allegoriche differiscono tra di loro in quanto identificano variamente la realtà che sarebbe da scorgere dietro alla lettera del Cantico. Così, ad esempio, il Targum del Cantico dei Cantici, cioè la parafrasi aramaica del Cantico, vi scorge molte tappe della storia di Israele, dalle peregrinazioni nel Sinai al ritorno dall’esilio babilonese e al sorgere della speranza messianica. Il Midrash Shir ha-shirim, scritto che raccoglie l’insegnamento rabbinico sul Cantico, vi vede descritto l’amore di Dio per il suo popolo. In queste interpretazioni ogni singola immagine, quasi ogni parola, nasconde dietro di sé un’allusione, ogni dettaglio diventa significativo.
I Padri della chiesa condividono con i rabbini il metodo di lettura, anche se ovviamente il riferimento diventa la chiesa e non più il popolo di Israele. Esistono anche varianti: c’è chi ha riferito il Cantico all’anima del credente unita al Signore, chi lo ha riferito a Maria e così via. Anche l’allegoria cristiana rende significativo ogni dettaglio. Per Origene, ad esempio, il verso: “sono nera, ma bella” (1,5) si riferirebbe alla nerezza del peccato e alla bellezza raggiunta attraverso la conversione. Per Cirillo d’Alessandria il verso 1,13 alluderebbe all’Antico e al Nuovo Testamento, in mezzo a cui sta Cristo. L’invito a mangiare e bere contenuto in 5,1 dovrebbe riferirsi alla Santa Cena (gli esempi sono segnalati da H.H. Rowley).
Il Cantico è uno dei tre libri dell’Antico Testamento integralmente tradotti dai valdesi nel Medioevo che ci sono pervenuti (Ecclesiaste, Cantico e Proverbi, cui vanno aggiunti i deutero-canonici Sapienza e Tobia). L’interesse dei valdesi per il Cantico è confermato dal fatto che ne abbiamo tre versioni, rispettivamente nelle Bibbie di Carpentras (XIV-XV sec.), di Grenoble (XV sec.) e di Dublino (inizio XVI sec.). A queste va aggiunta la versione-parafrasi Cantica contenuta nel codice Ge 207 (conservato a Ginevra). (Cfr. E. BALMAS, M. DAL CORSO, I manoscritti valdesi di Ginevra, Torino, Claudiana, 1977, pp. 54-56 e G. GONNET, A. MOLNAR, Les Vaudois au Moyen-Age, Torino, Claudiana, 1974, pp. 326-327.) Naturalmente i valdesi accettano, in linea generale, la tradizione interpretativa cattolica e in particolare quella monastica che armonizzava le quattro interpretazioni: storica, allegorica, tropologica e anagogica (cfr. Emilio COMBA, Histoire des Vaudois, Parigi-Losanna-Firenze, 1901, parte I, pp. 745-748).
L’interpretazione data da Lutero è anche allegorica, ma si discosta dalla tradizione: il ragazzo del Cantico sarebbe Salomone, la ragazza rappresenterebbe invece il suo regno, e tutto il Cantico celebrerebbe il benessere del regno salomonico e la fedeltà dei suoi sudditi.
Troviamo sostenitori dell’interpretazione allegorica fino ai nostri giorni. Va qui segnalata la posizione rappresentata dal commentario di Robert, Tournay e Feuillet del 1963 (si trova una sintesi delle loro posizioni nel volume di Tournay citato nella bibliografia). Questi autori ritengono che il Cantico sia immagine del rapporto tra Dio e il suo popolo, Israele. Il loro metodo consiste nello spiegare il Cantico a partire dal resto della Bibbia, vedendo per esempio che significato hanno certi termini o espressioni nei profeti (così la vigna in Is. 5,1 ss. e nel Cantico) e spiegando l’immagine o la frase corrispondente nel Cantico a partire da questo senso trovato in un altro contesto biblico.
L’immagine matrimoniale usata dai profeti (Osea, Ger. 2,2; 3,1 ss.; Ez. 16; Is. 62,4-5 ecc.) fornisce il punto di partenza per l’interpretazione di questi tre autori. L’obiezione mossa a questa interpretazione è che essa ignora la distinzione tra un contesto profetico, ad esempio, e il contesto del Cantico: in Is. 5,1 ss. si parla di una vigna del Signore, chiara immagine per intendere il suo popolo, ma questo senso non può essere trasferito al Cantico, dove in 1,6 il termine vigna allude al corpo della ragazza. Quella di considerare il Cantico “parabola” è una scelta interpretativa difficilmente giustificabile a partire dal testo.
Un altro filone, in voga soprattutto nel XIX secolo, ma poi pressoché abbandonato, è quello della cosiddetta interpretazione drammatica. Nel Cantico non avremmo una semplice raccolta di canti d’amore, ma una vera e propria azione drammatica, che si sviluppa con una trama e un crescendo dall’inizio alla fine, con diversi personaggi che la mettono in scena. Questa interpretazione parte dal fatto indubbio che nel Cantico si odono più voci e si assiste a cambiamenti di scena, anche repentini. Secondo un’interpretazione, i personaggi principali sarebbero due: il re Salomone e una pastorella chiamata Sulamita. Il re incontra la pastorella, se ne innamora, la sposa e la conduce con sé a Gerusalemme. Il gran re, partito da una semplice attrazione fisica, finisce per scoprire il vero amore. Secondo altri, i personaggi principali sarebbero tre: il re Salomone, la pastorella e il suo ragazzo, pure pastore. Salomone porta la ragazza nel suo palazzo, ma lei rimane fedele al ragazzo rimasto al paese e alla fine il re la lascia tornare da lui. L’amore ha trionfato sulle attrattive della vita di corte.
Accanto ai personaggi principali comparirebbero altre figure minori. La principale obiezione a questa linea interpretativa è che manca al Cantico proprio l’essenziale di un dramma, cioè una trama, uno sviluppo coerente. Troppe cose devono essere supposte o lette tra le righe per ricostruire una vicenda compiuta. Inoltre non risulta che la rappresentazione teatrale, il dramma (a parte talune azioni liturgiche), fosse diffuso tra le popolazioni dell’antico vicino Oriente, come invece lo fu fra i greci.
Anche quando era predominante l’interpretazione allegorica, c’è sempre stato chi ha visto nel Cantico un semplice canto dell’amore terreno. Teodoro di Mopsuestia vi scorse la descrizione dell’amore di Salomone per una principessa egiziana. Il Concilio di Costantinopoli (550), oltre un secolo dopo la sua morte, condannò le sue tesi, che ci sono purtroppo note soltanto attraverso gli attacchi dei suoi avversari.
Al tempo della Riforma protestante la stessa posizione fu sostenuta da Sebastiano Castellione. Secondo lui il Cantico, per la sua profanità, avrebbe dovuto essere estromesso dal canone. Queste sue idee furono uno dei motivi del dissidio con Calvino, in seguito al quale fu costretto ad abbandonare la città di Ginevra.
Salvo differenze di dettaglio, si può dire che oggi l’opinione corrente tra gli esegeti sia quella di interpretare il Cantico come poesia d’amore. Rimane dibattuto se si tratti di più canti o di una composizione unica e unitaria, se si tratti di canti di nozze o piuttosto di canti slegati dal matrimonio, quale sia l’epoca di composizione e così via. L’esegesi recente cerca di collocare il Cantico nel quadro della cultura antico-orientale, per coglierne tutti i dettagli espressivi, le particolarità e per scoprire le eventuali influenze delle culture contemporanee subìte dal Cantico.
Nel XIX secolo, la pubblicazione di uno studio sulle abitudini matrimoniali contemporanee dei beduini siriani da parte dell’allora console prussiano in Siria, sembrò portare nuovi elementi favorevoli all’interpretazione del Cantico come composizione avente a che fare con le celebrazioni e i festeggiamenti matrimoniali. Le feste descritte in questa pubblicazione duravano sette giorni (analogamente ai festeggiamenti conosciuti anche nella Bibbia, Giud. 14,10 ss.); gli sposi venivano incoronati e ricevevano il titolo di re e regina. In loro onore venivano cantati dei canti che ne celebravano la bellezza. La sposa si esibiva poi in una danza, maneggiando una spada, mentre i presenti cantavano canti di guerra. Si scorsero subito dei contatti con il Cantico. In base al parallelo con le nozze siriane si spiegherebbe il titolo di “re” dato al ragazzo del Cantico e la danza “dei due campi” di 7,2, peraltro a noi non meglio conosciuta, sarebbe da identificare con la danza della sposa nei festeggiamenti siriani. I diversi canti con cui nel Cantico è celebrata la bellezza dei due amanti sono stati avvicinati ai loro corrispondenti siriani. Vi sono però anche degli elementi discordanti: la ragazza non è mai chiamata regina, manca il canto di guerra e, salvo che in 3,9, dove però abbiamo a che fare con Salomone, manca nel Cantico ogni riferimento esplicito alle nozze. A questa interpretazione viene fatta anche un’altra obiezione. Se anche le condizioni di vita dei beduini si modificano con estrema lentezza attraverso i secoli, pare azzardato concludere che una pratica attestata in Siria nel XIX secolo lo fosse anche, e nella stessa forma, duemila e più anni prima nella regione palestinese, cioè più a sud.
Il XX secolo ha visto fiorire un’altra interpretazione, la cosiddetta interpretazione cultuale. Il Cantico sarebbe originariamente stato il testo di una liturgia dei culti della fertilità; l’amore di cui si occupa non sarebbe quello tra due giovani qualunque, ma quello tra due dèi. I fautori di questa interpretazione si sono riferiti in particolare al culto della coppia mesopotamica Tammuz e Ishtar (chiamati in sumerico Dumuzi e Inanna), largamente attestato in Mesopotamia, ma anche altrove e a noi noto attraverso diversi inni, testi mitologici e così via. Culti analoghi sono attestati anche in Siria, Fenicia, in Canaan (Tammuz e Ishtar, ad esempio, diventano in Fenicia Adone e Astarte).
H.H. ROWLEY riassume così il culto di Tammuz: “… Qualcuno rappresentava il dio [Tammuz; N.d.R.] e qualcuno la dea. La morte del dio e la sua discesa nel mondo sotterraneo, seguiti dalla discesa della dea alla sua ricerca, con il conseguente deperimento della natura, il loro susseguente rilascio e il loro ritorno al mondo superiore; tutto questo era rappresentato in forma di un dramma rituale. Il rito culminava poi nelle nozze e nell’unione di quelli che rappresentavano il dio e la dea, con l’accompagnamento della danza rituale e di molte licenziosità. Ciò non era considerato mera licenziosità, ma lo si riteneva un fattore essenziale del compimento del miracolo annuale della riproduzione della natura” (p. 224). Con quest’unione con due esseri umani si credeva di realizzare l’unione degli dèi e di liberare così i poteri della fertilità della natura.
Si videro anche qui dei punti di contatto. Tra i più notevoli: la ricerca dell’amato da parte della ragazza (3,1 ss.; 5,2 ss.) ricorda il motivo della discesa della dea agli inferi alla ricerca del dio morto; il motivo della primavera e del rifiorire della natura, così presente nel Cantico; il coro delle ragazze di Gerusalemme, che ricorda i cori dei culti della fertilità; testi che descrivono la bellezza della dea Ishtar sono stati avvicinati ai “canti descrittivi” del Cantico. I fautori di questa interpretazione hanno pensato che il termine ebraico “dod”, di solito tradotto con “diletto”, “amore” ecc., altro non fosse che il nome di un dio. Il nome di Salomone fu fatto derivare da Salem, nome attestato nel nome della città di Gerusalemme, ma anche nella forma semplice Salem in Gen. 14,18 e Sal. 76,2, e si postulò che anche questo Salem fosse un dio. I testi mitologici rinvenuti nella città di Ugarit ci hanno rivelato l’esistenza di una divinità con questo nome, ma non si tratta di una figura di primo piano nei culti della fertilità.
I culti della fertilità furono effettivamente praticati anche in Israele e, nonostante la durissima polemica dei profeti, non furono mai estirpati del tutto. I santuari che il popolo d’Israele trovò nel paese erano impregnati di questi culti, che spesso coesistettero accanto alla fede nel Signore YHWH. Per quanto riguarda specificatamente Tammuz, questo dio è menzionato esplicitamente solo in Ez. 8,14, dove compare un elemento del suo culto, cioè il pianto per la sua morte e da cui si capisce che il suo culto fu praticato anche nel Tempio di Gerusalemme. Nella menzione delle “piantagioni piacevoli” (vers. Riveduta) in Is. 17,10-11 potremmo avere allusioni a pratiche del culto di Adone-Tammuz. Altri ne scorgono ancora in altri testi (ad es., Zac. 12,11, Dan. 11,37, dove la “divinità favorita dalle donne” [vers. Riveduta] potrebbe essere Tammuz).
Secondo i sostenitori dell’interpretazione cultuale, l’originaria liturgia pagana sarebbe stata poi modificata e applicata al culto del Dio d’Israele, per essere poi secolarizzata e ridotta allo stato attuale. I critici di questa interpretazione sostengono che, pur essendo chiaro che un certo sincretismo è sempre stato presente in Israele, difficilmente si può immaginare come una liturgia del culto di Tammuz possa essere finita per intero tra gli scritti sacri della fede nel Dio d’Israele. D’altro lato, se essa fosse stata adattata al culto del Dio d’Israele, come è il caso di altri testi biblici, ne avremmo qualche traccia nel testo attuale, che invece, al contrario, non contiene nessuna menzione esplicita del nome di Dio, né motivi religiosi o teologici. Anzi, la vistosa profanità del Cantico sembra a molti autori uno dei tratti caratteristici della concezione ebraica dell’amore e della sessualità. Mentre, come abbiamo visto, nel mondo ambiente la sessualità era strettamente connessa con la sfera del religioso e del divino, la fede ebraica, che conosce solo un “Dio senza sesso”, opera una rigorosa separazione delle due sfere. Proprio nella sua profanità andrebbe cercata la portata teologica del Cantico dei Cantici.
Su un punto esiste un largo consenso tra gli studiosi: anche quelli che non accettano l’interpretazione integrale del Cantico come liturgia dei culti della fertilità, ritengono cionondimeno che elementi mitologici pagani siano entrati nelle immagini e nel linguaggio del Cantico. Queste rappresentazioni facevano parte del mondo e della cultura di allora e l’autore del Cantico vi avrebbe attinto, usando però in senso profano e demitizzato le immagini prese a prestito. Nelle note alla traduzione abbiamo cercato di segnalare i più importanti riferimenti mitologici evidenziati dagli esegeti.
Nel collocare il Cantico nel quadro più ampio delle letterature contemporanee, ci si è mossi anche in direzione dell’Egitto. Abbiamo qui una fiorente letteratura d’amore, in cui si trovano motivi e descrizioni analoghi a quelli del Cantico e un’analoga compenetrazione di amore e contemplazione della natura. Ad esempio, tra i sette canti del ciclo: “Canti della grande rallegratrice [così il Nolli. Altri traducono “allegrezza”; N.d.R.] del cuore” del papiro Chester Beatty I, troviamo la seguente descrizione della bellezza dell’amata. Essa ricorda Cant. 4,1 ss. e 7,2 ss. Il paragone con Sotis (personificazione della stella “Sirio”) ricorda Cant. 6,10, dove pure i termini di paragone sono celesti.

Unica, sorella senza pari,
bella su tutte,
ecco, ella è come Sotis splendente
all’inizio di un bell’anno.
Di chiarezza eccellente, raggiante di pelle,
bella di occhi nel guardare,
dolci le sue labbra nel parlare,
non ha parole in più.
Lunga di collo e raggiante di petto,
di vero zaffiro i suoi capelli,
le sue braccia vincono l’oro,
le sue dita sono come loti:
snella di reni, strettamente cinta a mezza vita,
le sue gambe mostrano la sua bellezza:
nobile d’andatura quando cammina sulla terra,
ella vinse il mio cuore col suo camminare.
A causa di lei il collo di tutti i maschi
è sempre voltato a guardarla:
felice chi l’abbraccerà tutta!
Egli sarà come il capo dei giovani gaudenti.
La si guarda quando esce fuori
fino al suo sparire, quest’unica.

(La traduzione è quella di G. NOLLI, Canti d’amore dell’antico Egitto, p. 55.)

Per alcuni (Gerleman), non soltanto la letteratura d’amore egizia avrebbe un riflesso nel Cantico, ma anche l’arte figurativa; alla base di molte descrizioni del Cantico starebbero più modelli artistici che persone in carne e ossa. Anche nel caso dei paralleli egiziani proposti dai commentatori, abbiamo cercato di segnalare i più importanti nelle note alla traduzione.
Anche i testi mitologici rinvenuti nel 1929 a Ras Shamra, tra le rovine dell’antica città-Stato di Ugarit, presentano talora espressioni, motivi e immagini avvicinabili al Cantico.
Concludendo questa rassegna sommaria, un’ultima parola va spesa sulla più recente pista interpretativa proposta per il Cantico. M. Pope, nell’introduzione al suo voluminoso commentario del 1977, propone all’attenzione degli studiosi il fatto che attraverso tutta l’antichità sono attestate delle feste funerarie a carattere orgiastico, di cui avremmo traccia anche nell’Antico Testamento in Am. 6,4-7 e Ger. 16,6-9. L’accostamento tra queste feste e il Cantico permetterebbe di capire l’associazione di amore e morte in 8,6, i numerosi riferimenti al vino, la menzione di una “Casa del vino” in 2,1 e altri particolari.


CARATTERISTICHE E STRUTTURA
DEL CANTICO

La lingua del Cantico si distingue per la sua ricercatezza. Una cinquantina di termini compaiono soltanto in questo scritto e mai altrove nell’Antico Testamento e abbondano termini rari e ricercati. Queste caratteristiche della lingua sono uno dei motivi che spingono alcuni autori a vedere nel Cantico un’espressione di raffinata e colta poesia. Per altri, al contrario, l’origine del Cantico sarebbe da cercare nella fantasia popolare.
Il metro predominante è quello comunemente chiamato qînÇh: si compone di due stichi, il primo con tre accenti, il secondo con due. Come per tutta la poesia ebraica, non esiste accordo tra gli studiosi sulla struttura del verso nel Cantico.
Anche la questione della struttura generale del Cantico, della sua unità o meno, è abbastanza dibattuta. Già a una lettura affrettata balzano subito agli occhi due aspetti contrastanti.
Da un lato si avverte subito la presenza di motivi, immagini e termini ricorrenti, ritornelli, doppioni. Diamo qui solo alcuni esempi (i paralleli all’interno del Cantico sono indicati nelle note alla traduzione). Un’intera scena, quella della ricerca notturna dell’amato da parte della ragazza, compare in 3,1-4 ed è ripetuta in 5,2-7. Il motivo del “portare in una stanza” compare in 1,4; 2,4; 3,4 e 8,2. Il motivo dell’abbraccio compare in 2,6 e 8,3 con le stesse parole; in 2,7; 3,5 e 8,4 abbiamo lo stesso ritornello; 2,16; 6,3 e la prima parte di 7,11 sono paralleli; la prima parte di 2,17 torna in 4,6; il paragone di 4,2 è ripetuto in 6,6 ecc. Altri elementi ricorrenti sono gli appellativi che i due amici si rivolgono e l’appellativo: “ragazze di Gerusalemme”.
D’altro lato non si riesce a scorgere nel Cantico uno svolgimento e difficilmente si sfugge all’impressione di una certa disorganicità. Abbiamo improvvisi e frequenti cambiamenti di scena: alcune scene si svolgono in campagna (ad es. 1,5-8), altre in città (ad es. 3,1 ss.), alcune in casa, altre all’aperto; in 4,8 addirittura nel Libano! Nasce perciò il problema di sapere come sia sorto il Cantico nella sua attuale forma e a quali criteri obbedisca la sua redazione.
Vi è chi, nonostante le difficoltà sopra indicate, delinea una struttura e presuppone un’unità d’autore. Questa posizione è stata ancora di recente sostenuta da J.C. Exum in un articolo. Per questa autrice il Cantico si comporrebbe di sei canti, a due a due paralleli, così ordinati: 1) 1,2 - 2,6; 2) 2,7 - 3,5; 3) 3,6 - 5,1; 4) 5,2 - 6,3; 5) 6,4 - 8,3; 6) 8,4 - 14. I canti 1) e 6) costituirebbero rispettivamente l’introduzione e la conclusione, mentre i canti da 2) a 5), ordinati secondo lo schema A B A’ B’, costituirebbero il corpo del Cantico, accuratamente e coscientemente elaborato. Per giungere all’individuazione di questa struttura, l’autrice è partita dal parallelo da lei riscontrato tra 5,2 - 6,3 e 2,7 - 3,5, ricercando poi altri elementi paralleli.
Altri autori, e li abbiamo seguiti in questa traduzione, considerano il Cantico un’antologia o raccolta di diversi canti d’amore originariamente indipendenti. Non tutti i sostenitori di questa tesi dividono esattamente nello stesso modo il testo attuale del Cantico per delimitare i canti o frammenti originari, ma un accordo di massima è riscontrabile: nella traduzione ci siamo quasi sempre rifatti alla divisione proposta da O. Loretz.
Altri, infine, pur non negando tensioni e salti, scorgono una certa progressione nello sviluppo del Cantico. Così, ad esempio, M.H. Segal, che scorge un crescendo fino a 5,1, in cui la desiderata unione diventa realtà. Da 5,2 in avanti avremmo una seconda parte, che riprende motivi della prima parte e ne aggiunge di nuovi. Anche D. Lys nota una certa “progressione”. Riportiamo qui in sintesi la struttura da lui proposta, ripresa anche dalla “Traduction oecuménique de la Bible” (TOB).
D. Lys individua sette parti nel Cantico:

1,2 - 2,7; la pastorella è amata dal suo amico, che è per lei un re e col quale s’incontra in campagna.
2,8-17; lei è in casa e lui, nascosto dietro un muro, l’invita a una passeggiata. Di fronte all’ira dei suoi genitori, lei gli assicura di amarlo e gli dà appuntamento per la sera stessa, fingendo di scacciarlo.
3,1 - 5,1; tutta questa parte racconta un sogno, in cui è inserito un canto di nozze di re Salomone (3,6-11). La sezione si conclude con “la consumazione delle loro unione” in 5,1.
5,2 - 6,3; l’amico arriva e lei si sveglia dal suo sogno. Non apre, poi lo cerca e rivive la scena sognata in 3,1-4. Senza lieto fine, però, perché viene picchiata dalle guardie e presa in giro dalle ragazze di Gerusalemme. Ella descrive loro la bellezza del suo amico e dice loro che egli sta certo venendo da lei.
6,4 - 7,10; eccolo infatti arrivare e cantare la bellezza di lei.
7,11 - 8,4; viene ripreso il progetto di 2,10.
8,5-14; descrizione della grandezza dell’amore. Poi, con una retrospettiva, lei ricorda qual era all’inizio l’atteggiamento dei suoi fratelli. Il Cantico non termina con l’unione dei due, ma con un invito alla fuga – verso di lei, dice D. Lys.

Ogni tentativo di ricostruire una struttura del Cantico ha certo dalla sua argomenti validi, cionondimeno lascia l’impressione di forzare in parte il testo. D’altronde, anche se il Cantico è un’antologia, una certa unità di stile è innegabile; potrebbe essere dovuta all’ultima mano, quella che ha riunito e trascritto frammenti originariamente indipendenti. Il criterio di questa redazione potrebbe essere stato non tanto un piano cosciente, quanto l’associazione dei vari frammenti in base al ricorrere di termini, immagini e concetti simili. Allo stato attuale la discussione su questo tema non può dirsi chiusa.
Tra i diversi elementi del Cantico individuati dalla critica letteraria, particolarmente interessanti sono i cosiddetti “canti descrittivi”. Si tratta di un vero e proprio genere letterario, conosciuto in tutto l’antico Vicino Oriente e molto diffuso nella cultura araba, in cui è chiamato “wasf”, termine con cui gli esegeti sono soliti designare anche i canti descrittivi del Cantico, in 4,1-7; 5,10-16; 6,4-10 e 7,2-10. è stato da più parti notato come lo spensierato godimento della bellezza, il soffermarsi sugli aspetti fisici dell’amore, la fantasia delle descrizioni conferiscano al Cantico una fisionomia precisa nell’ambito della letteratura biblica. La bellezza umana è talvolta notata nella Bibbia, ma mai con l’intensità e la partecipazione con cui ciò avviene nel Cantico (per i riferimenti alla bellezza nella Bibbia, cfr., ad es., Gen. 6,2; 12,11-14; 24,16; 26,7-8; 29,17; Deut. 21,11; II Sam. 11,2 ss.; 13,1; 14,27; I Re 1,3 ss.; Est. 1,11; 2,7; Giob. 42,15; Sal. 45,12 [Riv. v. 11]).
Nella letteratura ebraica post-biblica abbiamo una sola descrizione dettagliata della bellezza femminile. Si tratta di una descrizione di Sara, contenuta in un commento alla Genesi rinvenuto a Qumran. Essa ricorda per certi versi il Cantico. La citiamo qui nella traduzione di L. MORALDI (I manoscritti di Qumran, Torino, 1971, pp. 621-622):

… come è splendente e bello l’aspetto del suo viso e come è soffice la capigliatura della sua testa!
Quanto sono graziosi i suoi occhi, quanto è piacente il suo naso e tutto lo splendore del suo viso…!
Quanto è grazioso il suo petto e quanto lei è bella in tutto il suo biancore!
Quanto sono belle le sue braccia, quanto le sue mani sono perfette! Come è grazioso tutto l’aspetto delle sue mani!
Quanto sono gentili le palme delle sue mani e quanto lunghe e sottili le dita delle sue mani! E i suoi piedi, come sono belli!
Quanto sono perfette le sue gambe!
Nessuna vergine, nessuna sposa che entra nella camera nuziale sarà mai più bella di lei. Più di tutte le donne è piena di bellezza, superiore a quella di tutte le donne è la sua bellezza.
E in tutta questa bellezza è accompagnata da molta sapienza, e tutto quello che ha è proprio amabile.

Il Cantico si presenta come un dialogo tra lui e lei, in cui però ogni tanto compaiono anche altre voci. Si nota subito come la voce di lei sia largamente predominante. Inoltre la ragazza appare esattamente sullo stesso piano del maschio: ad esempio, più volte la ragazza “prende l’iniziativa” e invita all’amore, contravvenendo alla divisione maschile dei ruoli (cfr. I Sam. 18,20, unico caso in tutta la Bibbia, oltre al Cantico, in cui è detto che una donna ama un uomo). Il ruolo della ragazza nel Cantico costituisce una nota discordante con l’organizzazione patriarcale della famiglia quale la conosciamo, per esempio, dai testi legali dell’Antico Testamento, ed è al tempo stesso uno dei fattori di attualità del Cantico.


AUTORE E DATA

Il nome tradizionalmente dato allo scritto, Cantico dei Cantici, consiste nelle prime due parole della soprascritta. L’espressione “Cantico dei Cantici”, in ebraico, non è altro che un superlativo: va quindi tradotta con “il canto più bello”, “il più bello di tutti i canti”, “il canto per eccellenza” e così via. (Altre espressioni simili si trovano, ad es., in Eccl. 1,2 = “vanità delle vanità”; Dan. 2,37 = “re dei re” ecc.)
La soprascritta attribuisce il Cantico a Salomone, ma essa è stata con ogni evidenza aggiunta allo scritto. Salomone è nominato sette volte nel Cantico, in 1,1.5; 3,7.9.11 e 8,11.12. Solo in 1,1 è presentato come autore.
Secondo la tradizione Salomone fu “oltremodo sapiente” (I Re 4,29-34; 10,1 ss.; 10,23-24) e autore di poesie, canti e “scritti scientifici”, come è detto in I Re 4,32-34; cfr. Eccl. 47,12-17. Nel Midrash Shir ha-shirim, in 1,1 troviamo un pensiero curioso: Salomone avrebbe scritto nell’ordine il Cantico, i Proverbi ed infine l’Ecclesiaste, perché il giovane canta l’amore, l’uomo maturo pronuncia dei detti e il vecchio parla della caducità delle cose umane! A Salomone è inoltre attribuito un harem di notevoli proporzioni (I Re 11,3), cui forse si allude in Cant. 8,11-12.
Nessuno degli autori moderni sostiene più che il Cantico sia veramente opera di Salomone e l’autore sembra destinato a rimanere sconosciuto.
Per quel che riguarda la datazione dello scritto, nella letteratura recente abbiamo alcune tendenze diverse.
Da un lato vi sono autori che, pur negando la paternità salomonica e pur ammettendo che il testo attuale del Cantico reca innegabili connotati post-esilici che presuppongono quindi aggiunte o una redazione finale tardiva, fanno risalire l’origine dello scritto all’epoca salomonica. Gli argomenti sono vari. Per alcuni i numerosi riferimenti a prodotti esotici e preziosi, la vastità dell’orizzonte geografico, il senso di benessere e ricchezza che traspare dalle immagini del Cantico sono pensabili solo all’epoca di Salomone, al momento del massimo splendore del Regno unito; cfr. I Re 4,20-25; 10,14 ss.; per un altro argomento dei sostenitori di questa tesi, cfr. la nota 1 in 6,4.
Chi sottolinea i possibili influssi egiziani sul Cantico, vede nel cosiddetto “umanesimo” della corte di Salomone e nei suoi rapporti con l’Egitto, l’ambiente più favorevole al sorgere del Cantico. (Il regno di Salomone è datato a cavallo della metà del X secolo a.e.v.)
D’altro lato molti, in particolare le introduzioni all’An-tico Testamento, propendono per il periodo post-esilico (si tratta, com’è noto, dell’esilio in Babilonia del 587 a.e.v.), dunque per una data del V-IV secolo a.e.v.; alcuni si spingono fino al III secolo. Le considerazioni che stanno alla base di questa datazione più tardiva sono essenzialmente di natura linguistica. Molti elementi grammaticali e sintattici, ma soprattutto la presenza di termini di derivazione persiana sono sintomi evidenti di uno stadio tardivo nell’evoluzione della lingua.
Sono stati però anche rilevati alcuni arcaismi nella lingua del Cantico. Accanto alle due posizioni sopra citate c’è oggi chi tende a vedere una “storia vivente” nella redazione del Cantico. Dietro alla sua forma attuale vi sarebbe un lungo lavoro di composizione e tradizione, anche se non è sempre possibile rintracciarlo con precisione. “Bisogna aspettarsi che nei canti d’amore del Cantico il vecchio stia accanto al nuovo, l’arcaico accanto al moderno” (O. LORETZ, p. 65). Va ricordato che il testo del Cantico non offre alcuno spunto per la datazione (riferimenti a fatti concreti e databili ecc.), se non la lingua (cfr. però l’argomento riportato alla nota 1 in 6,4).
Per quel che riguarda il luogo di composizione, alcuni propendono per Gerusalemme, visti i numerosi riferimenti a questa città contenuti nel testo; altri si orientano più genericamente per la Palestina, regione che il Cantico mostra di conoscere bene. Alcune particolarità linguistiche del Cantico sono oggi considerate connotati dialettali del Nord del paese. Questo potrebbe forse fornire un indizio per il luogo di composizione.


PER SAPERNE DI PIù

In queste pagine non è stato possibile che accennare ad alcuni dei problemi dell’interpretazione del Cantico dei Cantici. Per un ulteriore approfondimento, rimandiamo il lettore alle opere citate nella bibliografia; molte, però, sono in lingua straniera e presuppongono la conoscenza dell’ebraico biblico. Di particolare utilità è la consultazione dei commenti esegetici e degli studi di una certa ampiezza (Gerleman, Gordis, Lys, Loretz, Meek, Nolli, Pope, Robert, Tournay, Feuillet, Rudolph, Würthwein).
Sono comunque possibili delle letture in italiano. Qui ne suggeriamo alcune.
Innanzitutto risulterà senz’altro fruttuoso il confronto di diverse traduzioni del Cantico, in particolare quelle con note esplicative. Segnaliamo qui la versione italiana della “Bibbia di Gerusalemme” curata dalle edizioni Dehoniane e della “TOB”, “Traduction oecuménique de la Bible”, curata dalle edizioni Elledici (nel caso di questa seconda opera, il volume contenente il Cantico non è ancora apparso). In entrambe le versioni, la traduzione del testo biblico è quella preparata a cura della Conferenza Episcopale Italiana, mentre l’apparato di note è la traduzione del rispettivo originale francese.
Possono essere utilmente consultate anche altre traduzioni, corredate di note più ampie o di un piccolo commento: Dalmazio COLOMBO, Cantico dei Cantici, nella serie “Nuovissima versione della Bibbia”, curata dalle Edizioni Paoline, Roma, 19752, pp. 138; Guido CERO-NETTI, Il Cantico dei Cantici, Milano, Biblioteca Adel-phi 58, 19752, pp. 118; Dante LATTES, Il Cantico dei Cantici del re Salomone, Roma, Unione delle comunità israelitiche italiane, 1965, pp. 74.
Un commento più ampio e dettagliato, sul testo ebraico, è offerto da G. NOLLI, Cantico dei Cantici, nella serie “La Sacra Bibbia” a cura di mons. S. Garofalo, edita dalla Casa editrice Marietti di Casale Monferrato (Torino), 1968, pp. 144. Si tratta del più recente commentario esegetico al Cantico in lingua italiana.
La letteratura d’amore egiziana è accessibile nella traduzione di G. NOLLI, Canti d’amore dell’antico Egitto, Roma, 1959.
La parafrasi aramaica del Cantico (cfr. sopra, p. 11), esempio di interpretazione allegorica ebraica, è accessibile nella traduzione italiana di Abramo Alberto PIATTELLI, Targum Shir ha-shirim, Roma, Barulli Editore, 1975, pp. 86. Il Commento al Cantico dei Cantici di Origene, esempio di interpretazione allegorica cristiana, è accessibile nella traduzione offerta dalla “Collana di testi patristici” dell’editrice Città Nuova (Roma, 1976).
Per ogni questione di tipo più generale si trova esauriente informazione nell’Introduzione all’Antico Testamento di J.A. SOGGIN, Brescia, Paideia, 19793.
Per approfondire gli usi e costumi di Israele al tempo dell’Antico Testamento (amore, matrimonio, fidanzamento, famiglia e così via) si potranno consultare H.W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, Brescia, Queriniana, 1975, e R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Torino, Marietti, 19722.
Infine, il lettore che desideri una bibliografia pressoché completa degli studi sul Cantico la può trovare in M. POPE, Song of Songs, The Anchor Bible 7c, Garden City - New York, 1977, alle pp. 233-288.

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