Il velo strappato
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Il velo strappato

La storia di Gulshan Esther

 
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Una ragazza musulmana imprigionata dalla religione, dalla severa educazione, dal suo essere donna, dalla grave disabilità, viene liberata da Dio.

Il velo strappato è la storia vera di Gulshan Esther che, incontrando Gesù, fu miracolosamente guarita dal Signore dopo 19 anni in sedia a rotelle.
Gulshan Esther è nata in Pakistan. Oggi vive a Oxford e ha viaggiato in tutto il mondo raccontando la sua straordinaria testimonianza di fede.
ISBN: 9788880772576
Producer: Editrice Uomini Nuovi
Product Code: 9788880772576
Dimensions: 150 x 210 x 10 mm
Weight: 0,200kg
Binding: Brossura
Number of pages: 141
Language: Italian

Book contents

Verso la Mecca; L'Hajj; L'acqua della vita; Il matrimonio; Il pungiglione della morte; L'auto; La fama; Il libro; Il battesimo; Le sorelle; Intrappolata; Il tentatore; La candela; Il testimone; Conclusione; La storia continua...

Sample chapter

Capitolo 1

VERSO LA MECCA

Non avrei dovuto recarmi in Inghilterra in quella estate del 1966 secondo l’ordinario corso degli eventi.
Io, Gulshan Fatima, la figlia minore di una famiglia Sayed, musulmana discendente diretta del profeta Maometto attraverso l’altra Fatima, sua figlia, avevo sempre vissuto una tranquilla vita costretta nella mia casa, quasi reclusa, nella regione del Punjab, Pakistan. E ciò non solo perché ero stata educata secondo la purdah sin dall’età di sette anni nel pieno rispetto dei più rigidi dettami del codice islamico ortodosso sciita, ma anche perché paralizzata e quindi incapace di lasciare la mia stanza senza l’aiuto di qualcuno.
Il mio volto era velato agli occhi degli uomini, fatta rara eccezione per i parenti più prossimi come mio padre, i due fratelli maggiori e mio zio. Per i primi quattordici anni della mia debole esistenza i muri delimitanti il perimetro di un grande giardino a Jhang, a circa 250 miglia da Lahore, costituirono per me i confini del mondo.
Fu mio padre a portarmi in Inghilterra – proprio lui che aveva sempre guardato con sospetto quegli inglesi che adoravano tre dei invece di un solo Dio. Non mi permetteva neppure di studiare la lingua degli infedeli durante le mie lezioni con Razia, la mia insegnante, per paura che potessi in qualche modo essere contaminata da quell’errore ed essere così allontanata dalla nostra fede. Eppure decise di portarmi fin là dopo aver speso una quantità enorme di denaro in patria nel tentativo di trovare una cura che giovasse alla mia condizione o il miglior consiglio medico. Fece tutto questo per amore, preoccupandosi della mia felicità futura; ma quanto poco sapevamo dei problemi e del dolore che attendevano, nascosti dietro l’angolo, la mia famiglia quando atterrammo all’aeroporto di Heathrow quel giorno all’inizio di aprile. Strano che io, la figlia paralitica, la più debole dei cinque figli, mi sarei rivelata alla fine la più forte di tutti e sarei diventata una roccia per dare rifugio a tutto ciò che egli aveva di più caro.
Ancora oggi, nella mia maturità, mi basta chiudere gli occhi per vedere subito con la mia mente un’ immagine a me cara: quella di mio padre, il dolce Aba-Jan; così alto e magro, sempre ben vestito nel suo perfetto abito nero dal collo alto fermato con bottoni d’oro, pantaloni ampi e un turbante bianco avvolto sul capo con della seta blu. Lo vedo così, quando da bambina, come suo solito, entrava nella mia stanza per insegnarmi la mia religione.
Lo vedo in piedi accanto al mio letto, davanti all’immagine della casa di Dio, La Mecca, il luogo più sacro per l’Islam, la Ka’aba, voluta secondo la tradizione da Abramo e restaurata da Maometto. Papà sfila il Santo Corano dallo scaffale, il luogo più alto in quella stanza, perché niente deve trovarsi al di sopra del Corano.
Bacia innanzitutto la copertina di seta verde e recita il Bismillah i-Rahman-ir-Raheem (io inizio nel nome di Dio, il Misericordioso e Compassionevole), aprendone quindi la copertina di seta verde, dopo aver precedentemente, con molta cura, eseguito il Wudu, le abluzioni rituali necessarie prima di poter toccare o aprire il libro sacro. Ripete il Bismillah e poi mette il Sacro Corano su di un rail, uno speciale leggìo a forma di X, toccando il libro solo con la punta delle dita. Si siede così che anch’io, adagiata comodamente su di una sedia, possa leggere. Anch’io ho eseguito a mia volta il Wudu aiutata dalle mie serve.
Papà fa scorrere le dita sullo scritto arabo finemente decorato mentre io ansiosa di compiacerlo ripeto dopo di lui la Fatiha, l’Inizio, cioè quelle parole che legano insieme tutti i musulmani in qualunque parte si trovino:

“Lode sia ad Allah Signore della Creazione,
pieno di Compassione, Misericordioso,
Re nel giorno del giudizio!
noi adoriamo solo te e a te solo chiediamo aiuto,
guidaci sul giusto cammino,
il cammino di coloro sui quali hai mostrato il tuo favore,
non di coloro sui quali hai riversato lo sdegno o coloro
che si sono allontanati da te e sono persi”.


Dal Sura oggi noi leggeremo gli Imrans:

Allah! non c’è altro Dio al di fuori di lui, il vivente, l’Eterno. Egli ha rivelato a te il libro con la verità confermando le scritture che lo hanno preceduto: poiché egli ha già rivelato la Torah ed il Vangelo come guida degli uomini e la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
Faccio ciò che ogni bambino musulmano di famiglia ortodossa impara a fare sin dai primi anni della sua infanzia, leggere cioè il Sacro Corano in arabo. Si può comprendere solo in arabo, la lingua in cui fu scritto. Noi musulmani sappiamo che non può essere tradotto senza correre il rischio di perdere qualcosa del suo significato. Si tratta di un libro sacro e non un libro qualsiasi.
Quando si termina la lettura completa del sacro testo per la prima volta – io avevo circa sette anni e questa età viene considerata l’età della discrezione – si dà una festa. La chiamiamo “ameen del Santo Corano” in cui tutti i membri della famiglia, gli amici ed i vicini sono invitati. Nel luogo centrale del bungalow dove gli uomini siedono separati dalle donne da un divisorio, il mullah recita delle preghiere che segnano l’ingresso in questa importante e nuova fase della vita mentre le donne che sono sedute nell’area del cortile ad esse destinata, smettono di parlare per ascoltare.
Siamo giunti alla fine del Sura. Ora inizia il mio catechismo. Papà mi guarda accennando un sorriso, dice “Ben fatto piccola Beiti (figlia)”. Ora rispondi a queste domande: “Dove è Allah?”
Vergognandomi ripeto la lezione che conosco così bene: “Allah è dappertutto”.
“Allah vede tutte le azioni che fai sulla terra?”.
“Sì, Allah vede tutte le azioni che faccio sulla terra, sia buone che cattive e conosce anche i miei pensieri nascosti”.
“Che cosa ha fatto Allah per te?”
“Allah mi ha creato e ha creato non solo me ma tutto il mondo. Lui mi ama e ha cura di me. Mi ricompenserà con il cielo per le mie buone azioni e mi punirà con l’inferno, per tutte le opere cattive”.
“Come puoi guadagnare l’amore di Allah?”
“Posso guadagnarmi l’amore di Allah tramite una sottomissione completa alla sua volontà e mediante un’obbedienza totale ai suoi comandamenti”. “Come puoi conoscere la volontà ed i comandamenti di Allah?”
“Io posso solo conoscere la volontà e i comandamenti di Allah mediante il Santo Corano e le Tradizioni del nostro Profeta Maometto (possano la pace e la benedizione di Allah essere su di lui)”.
“Molto bene” dice mio padre, “ora c’è qualcosa che vuoi sapere? Hai delle domande?”
“Sì padre, ti prego, spiegami perché l’ Islam sia migliore delle altre religioni?”, chiedo ciò non perché io conosca tutto sulle altre religioni ma perché mi piace ascoltarlo parlare della nostra.
La risposta di mio padre è chiara e definita. “Gulshan, io voglio che ti ricordi sempre questo: la nostra religione è più grande di qualsiasi altra perché Maometto è innanzitutto la gloria di Dio. Ci sono stati molti altri profeti, ma Maometto ha portato il messaggio finale di Dio all’umanità e non c’è nessun bisogno di un altro profeta dopo di lui. In secondo luogo Maometto è amico di Dio; egli distrusse tutti gli idoli e convertì all’Islam il popolo che li aveva adorati. In terzo luogo Dio dette il Corano, il libro più sacro di tutti a Maometto. è l’ultima parola di Dio e noi dobbiamo obbedire a questa parola; tutte le altre scritture sono incomplete”.
Io ascolto. Le sue parole si incidono, s’intagliano sulle tavole della mia mente e del mio cuore. Se abbiamo tempo, gli chiederò di illustrarmi ancora una volta l’immagine appesa nella mia stanza.
“Che cosa significa andare in pellegrinaggio alla città santa della Mecca, quel magnete verso cui ogni musulmano si volta cinque volte al giorno per pregare? E anche noi ci voltiamo in direzione della Mecca nella nostra città quando il muezzin richiama all’azzan dal minareto della moschea. Quel suono riecheggia lungo le stradine, tra il rumore del traffico e dei commerci ed entra nelle nostre finestre chiuse all’alba, a mezzogiorno, nel pomeriggio e di sera chiamando il fedele alla preghiera con la prima dichiarazione dell’Islam

“La ilaha ill Allah,
Muhammad rasoolullah!
Non c’è Dio al di fuori di Allah:
e Maometto è il suo profeta”.

Papà mi spiega tutto. è stato due volte in pellegrinaggio - una volta da solo e una volta con sua moglie, che è mia madre.
Ogni musulmano deve recarvisi almeno una volta nella vita e più volte se è una persona ricca; andare in pellegrinaggio è il quinto dei cinque pilastri dell’Islam che uniscono milioni di musulmani in molti paesi differenti ed assicurano la continuazione della nostra fede.
“Papà anch’io andrò alla Mecca?” gli chiedo. Lui sorride e si abbassa per baciarmi la fronte: “certo che ci andrai piccola Gulshan. Quando sarai più grande e forse…” Non finisce la frase ma io so che cosa vuole dire: “ quando le nostre preghiere per te troveranno risposta”.
Questi momenti mi insegnano la devozione verso Dio, l’attaccamento alla mia religione e alle sue tradizioni, un fiero orgoglio della mia discendenza dal profeta Maometto mediante suo genero Ali ed una comprensione della dignità di mio padre che non è solo il capo della nostra famiglia ma anche un discendente del Profeta, un Sayed e anche uno Shah. è anche un Pir, cioè un leader religioso con grandi possedimenti in tutto il paese ed un enorme bungalow pieno di ogni comodità circondato da giardini nella nostra città.
Ora inizio a comprendere per quale motivo siamo così rispettati come famiglia anche dal mullah o maulvi che viene a rivolgere le sue domande a mio padre, domande religiose a cui egli stesso non riesce a trovare risposta. Guardando indietro posso scorgere lo scopo di quegli anni di schiavitù quando la mente e lo spirito si schiudevano come i boccioli di rosa nel nostro giardino ridente, così tenuto con amorevole cura dai giardinieri.
Il mio nome Gulshan nella lingua Urdu significa “luogo dei fiori, giardino”. Io, una pianticella malata con un nome simile, ero veramente tenuta come quei fiori da mio padre.
Lui ci amava tutti - i suoi due figli Safdar Shah e Alim Shah; le tre figlie Anis Bibi, Samina ed io. Sebbene l’avessi deluso una prima volta poiché ero nata donna e poi a sei mesi perché resa paralitica dal tifo, mio padre mi amava ugualmente o forse anche più degli altri.
Non era forse stata mia madre stessa a lasciargli questo sacro compito di prendersi cura di me sul letto di morte? “Ti prego Shah-ji non sposarti di nuovo per amore della piccola Gulschan”. Queste furono le sue ultime parole prima di morire. Desiderava proteggermi da una matrigna e dai suoi figli e la mia dote dalla spoliazione in quanto figlia della prima moglie e dall’esser trattata in modo scortese perché ero malata e nubile.
Mio padre aveva promesso di far ciò molto tempo prima e rimase fedele alla parola data in un paese in cui, secondo il Corano, un uomo può avere fino a cinque mogli se è abbastanza ricco da poter garantire a tutte la stessa qualità di vita.
La mia vita procedette indisturbata secondo questo schema fino a quella visita in Inghilterra all’età di quattordici anni. Il terzo giorno tutto iniziò a cambiare in modo subdolo innescando una catena di conseguenze sorprendenti. E non potevo prevedere nulla mentre attendevo nella stanza d’albergo a Londra insieme a Samina e Sema.
Eravamo in attesa del verdetto dello specialista inglese del quale mio padre aveva tanto sentito parlare in Pakistan mentre continuava la sua ricerca di un trattamento medico migliore. Questo dottore si sarebbe pronunciato una volta per tutte su quello che sarebbe stato il mio futuro.
Se fossi guarita da questa malattia che aveva paralizzato tutta la parte sinistra del mio corpo poco dopo la nascita, allora avrei potuto sposare mio cugino al quale ero stata promessa in moglie già dall’età di tre mesi e che ora in casa a Multan, nel Punjab, attendeva notizie sullo stato della mia salute. Qualora non fossi guarita, la promessa di matrimonio poteva essere sciolta, ma avrei provato una vergogna maggiore che essere prima sposata e poi abbandonata da mio marito.
Avvertimmo il rumore dei passi. Samina e Sema subito si alzarono, aggiustandosi i loro lunghi dupatta con nervosismo. Samina aggiustò il mio sul volto mentre ero sdraiata sul mio letto. Tremavo, certamente non per il freddo. Cercavo di serrare i denti per fermarli ed impedire che battessero tra loro. La porta si aprì; mio padre entrò insieme al dottore. “Buongiorno”, disse una voce molto gentile e piacevole. Io non riuscivo a vedere la faccia del dottor David, ma c’era un’atmosfera di autorità e di conoscenza intorno a lui.
Mani ferme tirarono su la lunga manica del mio abito e cominciarono a palpare il braccio sinistro molle. Passarono poi alla gamba sinistra, anch’essa immobile. Passò un minuto e poi lo specialista si pronunciò.
“Per questo caso non c’è cura, solo la preghiera” disse il dottor David a mio padre. Non c’era nulla che equivocasse la quieta finalità della sua voce.
Giacevo sul mio letto ed ascoltavo il nome di Dio usato da quello strano dottore inglese. Ero molto confusa. Che cosa poteva mai sapere di Dio?
I suoi modi gentili e partecipi rivelavano ciò che stava accadendo: ogni speranza di guarigione era svanita per sempre. Egli però aveva indicato la via della preghiera.
Mio padre lo accompagnò alla porta e quando tornò indietro disse: “è stato bello che un inglese ci abbia detto di pregare”.
Samina mi tolse il dupatta (velo) dal volto e mi aiutò a sedere. “Papà, non può fare nulla perché io stia meglio?” La mia voce tremava. I miei occhi erano pieni di lacrime. Mio padre strinse la mia mano senza vita e disse sollecitamente “C’è un solo modo. Bussare alla porta celeste. Andremo alla Mecca come volevamo fare. Dio ascolterà le nostre preghiere e torneremo a casa pieni di ringraziamento”. Mi sorrise ed io cercai di sorridergli in risposta. Il mio dolore era il suo, ma egli non era nella disperazione. C’era una speranza rinnovata nella sua voce. Sicuramente alla Casa di Dio o alla fonte miracolosa di Zamzam avremmo trovato risposta al desiderio del nostro cuore.
Rimanemmo in quell’ albergo qualche altro giorno finché papà riuscisse a trovare posto sul volo di ritorno che passava per Jeddah, l’aeroporto in cui atterrano tutti quelli che si recano alla Mecca; non l’aveva fatto prima perché aveva voluto attendere quello che il medico avrebbe detto e le cure a cui avrei dovuto sottopormi. Aveva già previsto questa visita prima del mese in cui quell’anno cadeva il pellegrinaggio alla Mecca come ringraziamento per le cure mediche.
Durante quei giorni che precedettero il ritorno, papà andò a visitare alcuni amici della comunità pakistana ed alcuni vennero da lui. Normalmente le donne di quelle famiglie mi avrebbero fatto visita, ma per la vergogna della mia condizione e non sentendomi a mio agio nell’ accogliere degli sconosciuti in casa, poche di loro bussarono alla nostra porta.
Chi avrebbe mai desiderato vedere quegli arti inariditi, privi di vigore e di vitalità che al tatto apparivano come una molle gelatina?
Mentre le mie coetanee iniziavano a sognare il giorno in cui avrebbero indossato l’ abito nuziale rosso ricamato d’ oro e piene di gioielli sarebbero andate a vivere nella casa dei loro mariti portandosi dietro la dote, io dovevo fare i conti con un futuro fatto di solitudine. Tagliata fuori dai miei simili, una non-persona. Non sarei mai stata completamente una donna e perciò dovevo nascondermi dietro ad un velo di vergogna.
Alloggiavamo in una stanza confortevole al secondo piano dell’ albergo accanto a quella di mio padre. C’erano tappeti spessi e un bagno nella nostra camera. Samina e Sema dormivano nella mia stanza su un letto pieghevole alzandosi a turno per aiutarmi. Oltre a prendersi cura di me e lavare a mano la biancheria intima nella nostra stanza da bagno, non avevano altro da fare.
Il tempo tuttavia trascorse abbastanza velocemente impegnata con i libri, i cinque momenti di preghiera ed i riti ordinari di lavarsi, vestirsi e mangiare che richiedono molto più tempo quando riguardano una persona disabile.
Ascoltavo i pettegolezzi di Samina e Sema che di tanto in tanto facevano qualche veloce visita ai negozi in strada, ma avevano sempre paura di girare da sole. Normalmente si contentavano di osservare il mondo esterno attraverso la finestra descrivendomi quello che vedevano.
Le loro reazioni erano quelle tipiche delle ragazze di campagna del Pakistan e talvolta mi facevano ridere. “Oh che bella città”, diceva Samina, “quanta gente che cammina su e giù per la strada e quante auto!” Poi un grido da parte di Sema: “Guarda, le donne hanno delle gambe nude qua, ma non se ne vergognano? Uomini e donne camminano insieme tenendosi per mano. Si stanno baciando. Andranno direttamente all’ inferno!”.
Eravamo cresciute nell’osservanza di regole ferree riguardanti l’abbigliamento e il comportamento sin dalla nostra infanzia. Eravamo coperte con modestia dal collo fino alle caviglie dallo shalwar kameeze del Punjab - una tunica lunga e molto ampia sotto la quale indossavamo dei pantaloni che arrivavano appunto alla caviglia.
Il collo era avvolto da una lunga e ampia sciarpa, detta dupatta, che serviva a coprire il capo e quando era necessario poteva essere tirata giù per coprire il volto. Quando faceva freddo ci avvolgevamo con uno scialle; se uscivamo, indossavamo il burka, un velo impenetrabile e lungo che ci copriva dalla testa fino ai piedi. Partiva dalla testa e all’altezza del volto aveva un’apertura con una fitta rete che ci permetteva di guardare all’esterno del burka stesso.
Rendeva impossibile la benché minima conversazione per strada e limitava la capacità di vedere e di ascoltare di chi lo indossava.
A quei tempi non mettevamo in discussione le regole che governavano la nostra vita; eravamo terrorizzate anche solo a pensarlo. Avrebbe significato rinnegare le nostre convinzioni; il velo infatti era una protezione: potevamo guardare fuori, verso il mondo, ma il mondo non poteva guardarci.
Osservando il modo in cui erano vestite le donne a Londra, con quelle minigonne ben al di sopra del ginocchio, era ovvio che tutte e tre ci trovassimo d’accordo nel ritenere che fosse la città più perversa del mondo.
Parlare ad un uomo che non fosse un membro della famiglia o a un servo o a un cameriere di sesso maschile bastava a rovinare per sempre la reputazione di una donna nel nostro paese e ancora di più nella nostra città.
Scopo ultimo del purdah era naturalmente proteggere l’onore della famiglia. L’ombra o il più piccolo cenno di sospetto non dovevano intaccare le figlie di una famiglia musulmana. Le pene per l’indiscrezione potevano essere terribili.
Tre volte al giorno il cibo ci veniva portato con un carrello da un cameriere che però rimaneva sulla porta e Salima e Sema lo portavano all’interno. Talvolta era una cameriera inglese a fare questo servizio ed allora chiudevo gli occhi per non vedere le sue gambe.
Mi stavo stancando del cibo dell’ albergo, così papà iniziò ad ordinare pollo ogni giorno considerato halal, cioè puro e preparato secondo i canoni prestabiliti. La carne di maiale invece era haram, cioè impura. Anche solo pronunciare il termine “maiale” rendeva impura la bocca di chi lo diceva a tal punto che ancora oggi uso la parola barla, che significa “outsider”, quando mi riferisco al maiale. Tale è la forza di quell’ educazione ricevuta sin dall’infanzia. Qualunque altro tipo di carne era sospetto poiché poteva essere stato cucinato con del lardo di maiale. Insieme al pollo ci venivano servite verdure e riso; per dolce mangiavamo gelato e bevevamo Coca Cola. Ne avevamo una bella scorta nella stanza.
A dire il vero avevo un grande desiderio di curry e kebab. Mi mancavano le pesche e i frutti di mango che crescevano sugli alberi da frutto in casa.
Papà faceva del suo meglio per tenermi su. Mi portò fuori per delle piccole escursioni due o tre volte. Una volta mi fece vedere l’area intorno all’ albergo mentre in un’altra occasione insieme alle serve ci portò in taxi a fare un giro nelle vicinanze. Mi spiegò anche perché gli Ingrez non fossero come noi.
“Siamo in un paese cristiano” diceva; “credono in Gesù Cristo come Figlio di Dio. Naturalmente sono nell’ errore perché Dio non si è mai sposato e quindi non ha potuto avere un Figlio. Tuttavia anch’essi sono il popolo di un Libro come lo siamo noi. Musulmani e Cristiani hanno lo stesso Libro”.
Questo mi rendeva molto perplessa. Come potevano condividere lo stesso nostro Libro eppure essere così diversi da noi?
“Hanno libertà di fare molte cose che noi non possiamo fare”, disse. Possono mangiare carne di maiale e bere alcolici. Per loro non c’è nessuna distanza tra l’ uomo e la donna. Spesso vivono insieme senza essere sposati e quando i bambini crescono normalmente non rispettano i loro genitori. Tuttavia è brava gente e molto puntuale. Hanno anche dei sani principi. Quando fanno una promessa, la mantengono, non come gli asiatici.
Papà era un’ autorità su questa materia. Lui aveva continui rapporti con stranieri poiché si occupava dell’esportazione del cotone pakistano delle sue piantagioni.
“Differiamo da loro per la religione. Ma si tratta di brava gente in grado di fare tutto il possibile per aiutarti. Sono umani”, concluse.
Io ponderai le contraddizioni degli Ingrez - un popolo cortese che vive in un paese gentile e pieno di verde dove cade abbondantemente la pioggia, il cui Libro li aveva portati ad un tale stato di libertà. Eppure il nostro libro era in qualche modo simile al loro. Quale era dunque la chiave di questa differenza tra noi? Chiedevo troppo ad una ragazza di quattordici anni. Così cacciai questa domanda dalla mia mente dedicandomi completamente all’ anticipazione del pellegrinaggio che ci attendeva.
Tutto ciò avveniva alcuni anni prima di ricevere ulteriore luce. Ma quando questa luce arrivò, non sarei stata capace di mandarla via con tanta facilità.

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