Sample chapter
Il soffio della calda brezza estiva frusciante tra le foglie di un faggio accompagna una bimba che dondola sulla sua altalena, illuminata dai raggi del sole filtrati dai rami. Le sue allegre risate riempiono, in questo scenario idilliaco, l’aria impregnata del profumo delle rose. Nel momento in cui la bambina salta giù dall’altalena e mi corre incontro con le braccia spalancate, ricordo che per me non è stato sempre così.
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Eccitazione, gioia ed ansia non portano ad una notte tranquilla. Mi svegliavo in continuazione e guardavo quella creatura nella sua culla. Eccola, finalmente! Claire Ann Bowen, nata il 28 maggio 1979; stava lì dentro, completamente indifesa, sussultando spasmodicamente; speravo che saremmo riusciti a farcela con lei.
Sebbene non fosse stata prevista, dopo qualche riserva da parte mia e di mio marito Dick, la prospettiva di essere genitori ci rallegrava. Avevo perso mia madre in un incidente d’auto tre anni prima, e forse questo accresceva in me il desiderio di avere una famiglia tutta mia.
Eravamo pervasi da un intenso amore per la nostra bambina. L’unica preoccupazione, quel primo giorno, era di non riuscire ad allattarla in maniera adeguata. Che mamma sarei stata, se non ero in grado di andare incontro a questa semplice e basilare esigenza? Il giorno seguente i leggeri sussulti, che avevo già osservato, si erano trasformati in spasmi irregolari, accompagnati da uno strano suono nel respiro.
Mentre intorno a me tutto sembrava svolgersi con la calma tipica degli ospedali, io cominciavo ad agitarmi sempre di più. Claire non aveva ancora fatto un pasto adeguato. Nei miei tentativi di essere rassicurata dal personale, mi trattavano come una giovane mamma nevrotica. Alla fine, arrivò un’infermiera ausiliaria che si sedette ad ascoltarmi. Guardò Claire e cercò di aiutarmi ad allattarla. Dopo inutili tentativi, andò a chiamare la caposala. Ne seguì un viavai frenetico mentre la mia mente era in preda al panico e alla confusione.
“Unità di terapia intensiva....!”
“Pediatra specialista con urgenza...”.
“Dove possiamo trovare suo marito?”.
Ormai Claire era in balìa a vere e proprie convulsioni. I medicinali somministrati per controllare gli spasmi non facevano molto effetto. Qualcuno mi spiegò che, nonostante la bimba fosse in pericolo, non soffriva. Ma, guardandola senza poterla prendere fra le braccia e appagare il mio istinto materno, a stento riuscivo a credere a quanto mi avevano detto.
Claire fu sistemata, di conseguenza, nell’unità di terapia intensiva, circondata da tubicini, monitor sofisticati e divise mediche inamidate. Ecco la mia prima bambina, sopraffatta da qualcosa di mostruoso e sconosciuto, ed io non potevo fare niente perché, in quel momento, mi sentivo inutile per le sue necessità. Sedevo giorno e notte accanto all’incubatrice (a meno che non fossi costretta dalla caposala a tornare a letto) e, con la mano attraverso l’oblò, tenevo le sue piccole dita, e le parlavo. Facendo ciò mi ero resa conto di quanto la sua vita fosse per me più preziosa della mia.
Non ero una persona molto religiosa. Pregavo soltanto quando mi trovavo in difficoltà; ora pregavo più di quanto avessi mai fatto prima. “Fa’ che non muoia, dalle ancora del tempo, Ti prego!”. Dick era lì con noi, forte e fermamente convinto che ce l’avrebbe fatta. Ma perfino la sua certezza vacillò quando fu chiamato il cappellano dell’ospedale per battezzarla il terzo giorno - il 30 maggio 1979, giorno del mio ventiduesimo compleanno.
Quest’esserino mostrava già tutta la sua energia e il suo carattere nella lotta per la sopravvivenza. Nei giorni successivi sopraggiunsero molte crisi. Il personale ospedaliero era eccezionale. La pazienza e la capacità della dottoressa Janet Goodall, la consulente pediatrica, e la caposala alleviavano la nostra disperazione.
In tutto questo veniva fuori la mia ingenuità: “Se può fare migliorare la situazione, vorremmo ricoverare Claire a pagamento, non importa quanto ci costerà”, dissi senza mezzi termini alla dottoressa Goodall. Sul momento non rispose. Poi, senza tradire alcuna emozione, mi guardò con calma negli occhi, e infine mi disse: “Non accetto pazienti privati. Ogni bambino riceve la migliore assistenza che siamo capaci di offrire”.
Entro la fine della prima settimana, le condizioni di Claire si erano stabilizzate. Era assonnata, a causa dei medicinali che le venivano somministrati per controllare gli spasmi. Sebbene non fosse fuori pericolo, avevamo più speranze che continuasse a vivere. Forse le nostre preghiere erano state esaudite: non era morta a due giorni dalla nascita e a noi era stato concesso più tempo per stare con lei.
Dick ed io avevamo bisogno di risposte ai nostri interrogativi. Qual era la prognosi? Cosa provocava quegli attacchi? Quando l’avremmo portata a casa? Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto prendere quelle forti sostanze? Fenobarbitone, Fenitoin, Tegretol, diazepam. Noi, che eravamo cresciuti in un clima di sensibilizzazione verso l’abuso di sostanze tossiche, accettavamo con difficoltà il fatto che nostra figlia non avrebbe potuto più farne a meno. Nessuno era capace di darci risposte in modo soddisfacente, di spiegarci perché le accadesse tutto questo e quale sarebbe stato il suo futuro. Inevitabilmente mi chiedevo: In cosa ho sbagliato? Ne ho colpa io? Ci riusciva arduo accettare l’ignoto. Forse, se i problemi di Claire fossero rientrati in una categoria precisa, tutto sarebbe stato più comprensibile e accettabile.
Durante la prima settimana trascorsa nell’unità di terapia intensiva neonatale, Claire aveva assunto tanti sedativi da dover essere nutrita con le flebo. Quando si riuscì a tenere sotto controllo le convulsioni e lei riusciva ad essere leggermente più desta, la caposala mi suggerì di provare ad allattarla. Avevo cercato di favorire la fuoriuscita del mio latte per mezzo di un tiralatte elettrico (chiamato scherzosamente la “mucca Carolina”). Dignità e maternità non vanno sempre d’accordo! Claire si attaccava al seno due o tre volte svogliatamente e poi si assopiva di nuovo; era necessaria l’aggiunta del biberon con una tettarella con tre grandi fori, per permettere al latte di stillare a poco a poco senza troppo sforzo da parte sua. I tentativi della caposala di mandare Dick a far scorta di birra Guinness1 risultarono alla fine vani: il mio latte se ne andò. “Breast is best” (Al seno è meglio) era il consiglio degli esperti; ma questo slogan non faceva per me!
Dopo aver trascorso due settimane in ospedale, desideravamo tanto tornare a casa per essere una vera famiglia. Nessuno più della dottoressa Goodall lo capiva. Perciò portammo Claire a casa, ancora molto debole - più di quanto ci rendessimo conto. Lasciammo l’ospedale, una tenendo in braccio un prezioso fagottino, l’altro stringendo fra le mani un vero e proprio caleidoscopio di medicinali di differenti colori.
Sentivamo su di noi una responsabilità tremenda. Avremmo voluto poter avere con noi la caposala, ma lei ci assicurò che potevamo telefonare all’ospedale in qualsiasi ora del giorno o della notte. Nell’accomiatarci dalla dottoressa Goodall, dalla caposala e da tutto il personale, quel “grazie” ci sembrava così inadeguato ad esprimere la nostra gratitudine a quelle persone che avevano salvato la vita della nostra bambina.
Eccoci, una famiglia che ritornava a casa, riconoscente e piena di speranza, ma senza la più pallida idea della ricca trama in cui stava per essere intessuta.
1 Nota birra irlandese che si crede favorisca il flusso del latte materno; n.d.t.