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UNA PROSPETTIVA RADICALE
Non molto tempo fa mi trovavo in una certa chiesa per partecipare al culto di adorazione. Proprio all’inizio del culto, il coro, composto da gente esuberante, ci invitò ad adorare e celebrare il Signore cantando con le braccia alzate un inno dal titolo “Mi sento bene”. Confesso di essere stato profondamente disturbato da tale invito all’adorazione, poiché tutto dava l’impressione che noi non abbiamo bisogno di andare a Dio ma che, piuttosto, egli dovrebbe apprezzare quando gli dedichiamo un pochino di tempo, ritagliato dalla nostra fitta agenda, per riconoscere la sua esistenza. Contrariamente a questo modo di fare, la ragion d’essere della vera fede e del radunarsi per adorare è celebrare la gloria di Dio e, adorando la sua persona, confessare la sua grazia verso di noi.
Molte chiese sono divenute preda dell’assimilazione culturale. Hanno degenerato fino a sublimare il peggior egoismo celebrando Dio primariamente per la sua “funzione” di donatore, ed hanno cominciato a diffondere un messaggio che non differisce affatto dal diffuso narcisismo culturale e dal più barbaro utilitarismo. Tali chiese si sono adattate alla naturale tendenza umana della ricerca di ciò che non è eterno e hanno praticamente rifiutato l’adorazione genuina. Questa, infatti, è incentrata sull’infinita dignità di Dio e sulla nostra assoluta dipendenza da lui. Adorare Dio non significa “rallegrarsi di stare bene” celebrando la nostra buona condizione socio-economica!
Ogni persona sensata dovrebbe riverire un Dio che sostiene ed opera in favore dell’intero universo, ma le chiese non esistono per bearsi della loro prosperità e del loro benessere; piuttosto si deve adorare Dio per la sua generosità nel fare grazia e nel perdonare.
L’erosione della centralità di Dio
Fin dal XVII secolo la forza delle idee filosofiche più all’avanguardia ha prodotto una spirale discendente nella vita e nei valori della cultura occidentale. Il concentrarsi su Dio e sulla sua Parola ha un effetto liberatorio sulle persone, mentre l’allontanamento dalla Parola e il ripiegarsi su di sé non induce che alla schiavitù. L’età moderna (1750-1900), affondando le sue radici nell’illuminismo e nella sua estrema esaltazione della ragione o della rivelazione naturale, ha rimarcato la perfettibilità umana mediante i mezzi del progresso scientifico e culturale rigettando la dottrina biblica dell’insufficienza dell’uomo. In un mondo che appariva sempre più proteso al miglioramento e volto ad una crescente benevolenza, si riposero tutte le speranze nelle facoltà della ragione umana. Questa visione del mondo e della vita, però, s’infranse sotto il peso di una caterva di evidenze contrarie. Le guerre mondiali e i genocidi dei secoli scorsi ci hanno dimostrato che, mentre la scienza è in grado di migliorare la vita in molti modi straordinari, la cultura secolare non può modificare il lato oscuro della specie umana. Piuttosto, l’aumento di conoscenza lo rende ancora più buio e pericoloso.
L’età moderna si è ormai conclusa; tuttavia non si è tornati alla concezione biblica del mondo tipica del I secolo dell’era cristiana o della Riforma del XVI secolo. Anzi siamo di fronte ad una forma ancora più grave di disperazione umana. L’epoca moderna, infatti, aveva nutrito la speranza di raggiungere la coesione universale mediante l’assunzione di una prospettiva morale comune, ma tale speranza si rivelò una chimera. A rimpiazzarla fu un accentuato egocentrismo, un attaccamento morboso ai diritti personali e alla morale privata. Nacque così l’età postmoderna che chiamava gli uomini a un egocentrismo radicale.
Il risultato del postmodernismo è stato quello di produrre una revisione completa della società. I sociologi hanno lanciato l’allarme, dallo scrittore secolare Christopher Lasch (The Culture of Narcissism, New York, W. W. Norton, 1979; tr. it. La cultura del Narcisismo, Milano, Bompiani, 1992) all’apologeta cristiano Francis Schaeffer, fino alle geremiadi scritte recentemente da George Barna, Michael Horton e David Wells. Consideriamo ora alcune manifestazioni del postmodernismo.
1. La trivializzazione dei valori. Tale tendenza deriva dal consumismo, dall’accumulazione delle ricchezze e dalla passione smodata per gli sport e gli svaghi. Mentre in Occidente si vive per il puro ed effimero godimento del piacere, le virtù pubbliche si sbriciolano e scompaiono nell’abisso dei valori privati e individuali.
2. Il profondo narcisismo e lo stile di vita egocentrico. Com’è dimostrato dall’interesse e dai gusti delle masse, sembra che la valutazione della prestanza fisica (la virtù della forza), della bellezza esteriore (l’arte dell’attrazione) e del denaro (investimenti e pensioni integrative) siano più importanti di qualunque altra cosa, mentre l’amore verso il prossimo e la disponibilità al sacrificio per il bene altrui sono svaniti.
3. La mancanza di gratitudine. Preoccupati come siamo di pensare a noi stessi, abbiamo perso la grazia di essere riconoscenti. Il nostro mondo diviene sempre più triste perché, visto che gli autori e gli artefici di ogni cosa buona siamo noi stessi, non rimane nessuno da dover ringraziare.
A causa di tali tendenze non c’è da meravigliarsi se in molte chiese cristiane è venuto meno il senso della chiamata ad una adorazione di Dio seria e devota. Ciò che manca non è la forma dell’adorazione, perché ogni chiesa ha la propria, ma la profonda contrizione e l’umiltà che non possono mancare dove Dio è realmente adorato. Poiché la prospettiva divina dell’adorazione è stata abbandonata, per recuperarla sarà necessario rendere a Dio la centralità che gli è propria.