La luce del primo giorno - L'odio, l'amore, la verità e la menzogna ai tempi di Gesù
La luce del primo giorno - L'odio, l'amore, la verità e la menzogna ai tempi di Gesù

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Gerusalemme, l’antica città dove l’odio, la menzogna, la disperazione dominano incontrastate, è avvolta dalle tenebre. Governato dai romani, ma costretto ad assistere alle azioni di uomini religiosi animati esclusivamente da interessi personali, il popolo di Gerusalemme si chiede se mai verrà salvato. Susanna e Manaen cercano di tenere viva la fiamma della speranza in un mondo dove il loro amore è osteggiato. Altri pregano in attesa di una luce che giunga a rischiarare la loro vita, la Luce del Messia. Peniel il mendicante, Marco il centurione romano e Zadok il Pastore d‘Israele e i suoi tre figli adottivi attendono il Cambiamento, tutti nutrono la speranza. In questo panorama un uomo che predica il bene percorrere le strade di Gerusalemme, guarendo i malati e offrendo amore alla gente. è lui il vero Messia?

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Products » Christian Books » Fiction
ISBN: 9788834417546
Producer: Armenia
Product Code: 9788834417546
Weight: 0,630kg
Binding: Copertina rigida
Language: Italian

Sample chapter

Prologo
GERUSALEMME, CITTà VECCHIA, PASQUA 2002

IL SEDER, LA CENA DI PASQUA, era finito. Moshe Sachar baciò i cinque figli più anziani e augurò la buona notte ai nipotini sull’uscio della casa della Città Vecchia di Gerusalemme.
Il figlio maggiore, Luke, lo abbracciò con le lacrime agli occhi. «Papà, papà. Senza di loro, non è la stessa cosa.»
Moshe gli diede una pacca sulla spalla. «Tua madre e tua cognata ci vedono dal cielo. Rachel è orgogliosa dei suoi figli, e dei diciannove nipotini. Non c’era niente che le piacesse di più che fare da bubbe a tutti i nipoti, vero? Dio ci ha concesso cinquantatre meravigliosi anni insieme. Che possiamo volere di più?»
«Non doveva finire così», ribatté Luke accigliandosi.
«Non è affatto finita, figliolo. Io osservo i volti dei nostri nipoti ed è come se tua madre non se ne fosse mai andata. Vedo il sorriso di Rachel riflesso nello sguardo della piccola Leah, non sei d’accordo? Rivedo gli occhi di Rachel quando Etta mi guarda. E sento la voce di Rachel quando Danielle recita la benedizione.»
«Sei sicuro di non aver bisogno di noi, papà?» Luke esitava ad andar via.
Moshe indicò con un gesto il figlio più giovane Shimon, che se ne stava mogio, a braccia conserte, sulla porta dello studio. Sussurrò: «Prega per tuo fratello. Sta attraversando un momento difficile».
Shimon, trentasette anni, aveva perso la moglie nello stesso attentato che aveva ucciso Rachel. In tono allegro il padre proseguì: «Tuo fratello mi terrà compagnia».
Alfie, il vecchio e possente giardiniere, alzò una mano e si avviò ad abbracciare Luke. «E io pure. Non dimenticarti che ci sono anch’io.»
«Certo. Il caro vecchio Alfie.» Luke restituì l’abbraccio al custode dall’animo semplice che viveva con Moshe e la sua famiglia da più di cinquant’anni.
Alfie rassicurò Luke. «Non preoccuparti per tuo padre e tuo fratello, me lo prometti? Penserò io a loro. Mi occupavo di tuo padre prima ancora che tu nascessi.»
Lo interruppe Moshe. «Io, Alfie e Shimon. Tre scapoli. Staremo svegli tutta la notte a fumare la pipa e a ricordare i vecchi tempi. A discutere di politica e di archeologia. Cosa c’è di meglio che passare la Pasqua a Gerusalemme? Ce la caveremo benissimo. Tua madre approverebbe. Ora vai a casa, Luke. Ti telefono domani.»
«Shalom, papà.» Poi Luke salutò con un gesto il fratello. «Shimon. Alfie. Shalom.» Sfiorò la mezuzah, la piccola custodia con la pergamena contenente i brani della Torah appesa allo stipite della porta, pronunciò una benedizione e si allontanò per raggiungere la famiglia che lo aspettava sul vialetto. Non abitavano molto distante.
Si udì il rumore della porta che si chiudeva. Moshe si fermò un attimo con la mano appoggiata al nottolino. L’orologio nell’ingresso ticchettava. La casa era silenziosa. Troppo silenziosa.
Alle spalle di Moshe giunse la voce di Shimon. «Stai bene, papà?»
«Certo», ripose Moshe. «E tu?»
«Sarà una lunga notte», ribatté il figlio, con voce stanca.
«Sì.»
«Farò il caffè e porterò i biscotti prima che tu glielo faccia vedere, va bene?» Il vecchio gigante trotterellò verso la cucina.
Da quando si era sposato, nel 1948, quella era la prima Pasqua che l’archeologo israeliano Moshe Sachar passava senza la moglie. Le sedie vuote di Rachel e della nuora trentaduenne Susan erano la prova che gli ultimi cinquant’anni non avevano rafforzato la fragile esistenza di Israele, che il tempo non aveva cancellato la promessa dei musulmani di portare a compimento l’opera che Hitler aveva iniziato con lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista. Da che Hitler aveva promosso la propaganda contro gli ebrei europei, mai l’antisemitismo aveva raggiunto tali livelli. Diffuso dai media di tutto il mondo, quel cancro affondava i suoi artigli nelle menti e nelle culture di ogni nazione.
Perfino nelle chiese americane molti avevano incominciato a predicare contro l’esistenza della nazione di Israele, incuranti della promessa di Dio ai discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Intanto, in Israele, la vita e la morte di un ebreo dipendevano sempre più spesso da un fatto fortuito come perdere un autobus preso di mira da un terrorista o uscire dal ristorante un attimo prima che un kamikaze ci entrasse.
Era passato un anno da che Moshe e Shimon avevano perso le rispettive mogli, uccise da un terrorista suicida in un caffè della Città Vecchia. Rachel, la moglie di Moshe, era sopravvissuta all’Olocausto, alla guerra di indipendenza israeliana del 1948 e a tutti i conflitti combattuti da Israele nei cinquant’anni successivi.
Come madre di sei robusti ragazzi e di una figlia adottata in America, Rachel usava dire a Moshe che quando Dio l’avesse chiamata, lei finalmente si sarebbe concessa il giusto riposo, dopo tutti quei piatti cucinati per una famiglia tanto numerosa!
Al momento della deflagrazione al ristorante, Rachel aveva fatto da scudo a due bambini.
Susan era una studentessa americana di archeologia che aveva conosciuto e sposato Shimon cinque anni prima. Appena era scoppiata l’intifada, i genitori l’avevano pregata di rientrare in America ma lei, come la mitica eroina del Libro di Rut, aveva scelto di rimanere in Israele con la sua nuova famiglia. La gente di Shimon era diventata la sua gente, ripeteva, e non l’avrebbe abbandonata. Susan era incinta di sei mesi quando un cuscinetto a sfera scagliato dalla bomba le aveva centrato l’occhio e devastato il cervello, uccidendola sul colpo. Il bambino, un maschio, le era morto in grembo pochi minuti dopo. Susan Sachar era nel pieno della vita quando un terrorista di Hamas aveva deciso di stroncarla a lei, a Rachel, al bambino e a molti altri.
La CNN aveva definito l’assassino un «attivista politico».
Yasser Arafat aveva accusato Israele di esserne il mandante.
La madre mussulmana del terrorista era stata intervistata con molta simpatia e si era dichiarata orgogliosa del figlio, la cui foto tappezzava i muri della striscia di Gaza e che era osannato come eroe e martire dell’Islam. La famiglia ricevette un compenso di diecimila dollari dall’Irak e cinquemila dall’Arabia Saudita e dall’Egitto.
Nessuno chiese a Shimon o a Moshe che cosa significasse per loro la perdita delle mogli e di un figlio non ancora nato.
Shimon, professore di storia antica alla Hebrew University, era sprofondato nel dolore e nella disperazione. Da allora non era passato giorno senza che rivolgesse un pensiero a Susan e al bimbo che avrebbe potuto avere.
Quella notte si accasciò nella poltrona di cuoio davanti alla scrivania di Moshe. Fissava nel vuoto la fila di vasi antichi sulla libreria, tenendo le mani giunte.
Moshe si sedette di fronte a lui. Udiva il tintinnio delle stoviglie mentre Alfie rigovernava la cucina e preparava il caffè.
«è tardi», disse Shimon senza fissare il padre negli occhi.
Shimon è quello che più mi assomiglia, notò Moshe. Alto, magro e abbronzato. Naso prominente e zigomi alti. Occhi castano scuro, capelli neri ricci striati di grigio sulle tempie. Shimon aveva ereditato i tratti dei sefarditi. Aveva seguito le orme del padre e quando questi era andato in pensione ne aveva occupato la cattedra.
«Fra tutti i tuoi fratelli», disse Moshe ad alta voce, «sei quello che più mi somiglia».
Shimon sospirò e distolse lo sguardo. «Tu e la mamma. Quanto? Cinquantatre anni? Avrei voluto che fosse lo stesso per me e Susan.»
«Non sono dell’umore giusto per dire banalità, Shimon.»
«Ottimo. Sai che i miei amici insistono perché esca con qualche ragazza?» Spostò il peso sulla sedia, disgustato. «Ti rendi conto? Come regalare un cucciolo a chi ha appena perso un cane. Orribile. Orribile.»
«Sì», convenne Moshe.
«Papà.» Shimon si grattò un sopracciglio, come per scacciare un’immagine dalla mente. «Non so come fare. Ancora adesso, quando metto piede nel nostro piccolo appartamento, mi illudo di trovare Susan che mi aspetta.»
«Lo so», Moshe pensava alle infinite volte in cui si era dimenticato che Rachel non c’era più. La chiamava per nome, attendendosi una risposta.
«Papà? Cosa posso fare?»
«Lavorare. Studiare.»
Shimon scosse la testa. «Ho perso interesse in… tutto. Non lo so. Papà, mi hanno concesso un anno sabbatico, non tornerò all’università dopo la pausa primaverile. Mi occorre altro tempo. Io… è tutto così confuso. è come se fossi cieco. Cieco, senza la sua luce.»
«Non sei solo nel tuo dolore.»
«Perché non mi è di conforto? Continuo a chiedermi: perché? Perché? Io e te siamo usciti insieme da quel caffè. Loro si sono attardate a chiacchierare. La mamma e Susan. Avrei preferito… sai cosa intendo.»
«Intrattenerti con loro quel tanto che bastava per morire insieme?»
«Sì. Sì. Proprio così.»
«Lo so, figliolo. Lo so. Per me non è così difficile. Ho più di ottant’anni e presto rivedrò tua madre. Presto. Ma tu hai ancora tutta la vita davanti.
«Mi toccherà vivere nell’oscurità.»
«No. Ma dovrai vivere finché non vedrai la luce.»
Silenzio. Shimon serrò le labbra.
Alfie fece il suo ingresso, con un thermos in mano e un tascapane a tracolla. Fissò Shimon, poi si rivolse a Moshe. «Non gli hai detto ancora niente?»
«No», rispose Moshe.
«Faresti meglio a dirglielo», fece, lentamente. «Tuo figlio maggiore, Luke, lo sa. Shimon è il più piccolo. Anche lui dovrebbe saperlo. Non è saggio che un solo figlio conosca il segreto. E se succedesse qualcosa? Tu sei vecchio. E anch’io.»
Shimon sollevò il capo e fissò Alfie. «Che vai dicendo, Alf?»
Alfie si diresse verso la libreria. Socchiuse gli occhi, poi si rivolse deciso a Moshe. «Lui non sa niente, eh? Non sa che il suo bisnonno, il rabbino, conosceva tutti i cunicoli sotto la città? Non sa come noi due abbiamo fatto a sparire nel 1948 dopo che la Città Vecchia cadde nelle mani degli arabi? Né di cosa c’è sotto questa casa? Niente di niente? Shimon non lo sa? Moshe! Stiamo invecchiando, tu ed io. E Rachel, tanto tempo fa, disse che Shimon aveva il diritto di condividere il segreto. Deve. è il più giovane. Sia lui che Luke devono saperlo. Tu l’hai mostrato a Luke un anno fa. Hai promesso a Rachel che prima di morire lo avresti rivelato al maggiore e al minore dei tuoi figli.»
Shimon incominciò a dare segni d’irritazione. «Di che cosa sta parlando, papà?»
Moshe rispose misurando le parole. «Tu mi assomigli, Shimon. Per questo, secondo tua madre, eri il più adatto a prendere il mio posto.»
«E così ho fatto. Ho preso la tua cattedra. Avrei voluto emularti anche in altre cose. Nella tua vita. Ma il destino non è nelle mie mani», commentò Shimon.
«Diglielo, Moshe», lo incalzò Alfie. «Ho con me il caffè. Un thermos. Lo porteremo con noi. è Pasqua. Diglielo.»
Moshe annuì, compassato. «Nel maggio 1948 dirigevo la difesa della Città Vecchia. Tu conosci quasi tutta la storia.»
«Sì», lo interruppe Shimon. «Il quartiere ebraico era circondato e assediato da cinque armate arabe. Solo duecento ebrei a difendere la città contro migliaia di arabi. Millecinquecento civili ebrei stavano morendo di fame, senz’acqua, asserragliati sotto la sinagoga Hurva. Poi avete finito le munizioni. Siete stati sopraffatti. Sconfitti dagli arabi. Fatti prigionieri di guerra. I civili israeliani furono espulsi dal quartiere ebraico. La mamma era con loro quando furono condotti fuori dalla Città Vecchia, assieme a zio Yacov. Nonno Shlomo Lebowitz morì quella notte. Le sinagoghe furono bruciate. Per diciannove anni i giordani controllarono la Città Vecchia e a nessun ebreo fu concesso entrare a Gerusalemme o pregare al Muro Orientale.»
Moshe alzò un dito per correggerlo. «Non è del tutto vero.»
«Diglielo», insistette Alfie.
«Sì.» Shimon si piegò in avanti. «Dimmelo, papà.»
Moshe si schiarì la voce. «Sai che questa casa è stata edificata sulle rovine dell’abitazione di nonno Lebowitz?»
«Sì», rispose Shimon. «Quando Israele ha strappato la Città Vecchia alla Giordania nel 1967, questa proprietà è stata restituita a te e alla mamma. Tu hai ricostruito la casa. Tu e Alfie l’avete ricostruita con le vostre mani, aiutati da Luke e zio Yacov. Me lo ricordo.»
Moshe sfoderò un sorriso enigmatico. «Non volevamo che nessuno ficcasse il naso da queste parti. Specie in cantina. Per questo abbiamo fatto tutto da soli. Per preservare il segreto.»
«Quale segreto, papà?»
«Prima che la Città Vecchia cadesse nel 1948, il nonno mi aveva mostrato un passaggio segreto che si apriva in cantina.»
«Un passaggio?»
«Un tunnel, risalente ai tempi antichi», continuò Moshe. «Conduce sotto la Città Vecchia, fin sotto la Collina del Tempio. Alfie ed io… mentre le armate arabe entravano nel Quartiere Ebraico… Alfie e io siamo scappati attraverso un secondo passaggio che porta dalla sinagoga Eliyahu a una stanza. Una biblioteca.»
Shimon sbatté gli occhi, incredulo, rivolto al padre. «Sono al corrente della leggenda. Da sempre. Chi non lo è? Ma, papà, mi stai forse dicendo che non si tratta di un mito?»
«Tu sei il mio figlio minore, Shimon. Tu, come me, verrai messo a parte di questo tesoro. Il segreto mi è stato svelato dal tuo bisnonno. Anche tuo zio Yacov ne era al corrente. Ma è morto senza lasciare eredi, quindi è mio dovere trasmetterlo ai miei due figli. A Luke, che è nato il giorno in cui Alfie ed io siamo riapparsi in superficie… e adesso a te, che sei il più giovane.»
«Mostraglielo», lo incalzò Alfie, chiudendo a chiave la porta dello studio. «Ho portato i biscotti, e pure il caffè. Mostraglielo.»
Moshe si sollevò a fatica dalla sedia. «Sì, è giunto il momento. Per la prima volta, sento che è arrivata l’ora. La fine di qualcosa. E l’inizio di qualcos’altro. Non sono più giovane.»
Shimon balzò in piedi. «Per favore, papà. Ti supplico. Mostramelo.»
«Alfie», disse Moshe rivolgendosi con deferenza all’anziano domestico. «Aprilo.»
Alfie mise in spalla il tascapane e si alzò in punta di piedi per mettere l’ossuto dito indice nel salvacera centrale di una menorah, il candelabro rituale a sette braccia. Sotto la leggera pressione, la menorah si inclinò in avanti con un clic. Una stretta porzione della libreria arretrò, aprendo uno spiraglio abbastanza largo da permettere il passaggio di una persona.
Shimon sussultò. «Era questo che facevi tutte le volte che la mamma ci diceva che stavi studiando e non potevi essere disturbato?»
Moshe scoppiò a ridere. «Diceva la verità. Voi credevate che studiassi in questa stanza, vero?»
«Ventidue gradini», spiegò Alfie. «L’abbiamo fatta così, secondo l’alfabeto ebraico. Ventidue lettere. Me lo ha insegnato Moshe, affinché me lo ricordassi.»
Si infilarono nello spazio angusto. Le spalle strusciavano contro le pareti mentre scendevano al buio. Ventidue gradini che iniziavano con la lettera alef.
Moshe girò una maniglia e la libreria si chiuse alle loro spalle, lasciandoli nell’oscurità più totale.
«Figliolo, dami la mano.» Moshe afferrò Shimon per il polso. «Imparerai a seguire il percorso senza bisogno della luce.» Tese in avanti la mano di Shimon fino a fargli sfiorare coi polpastrelli la fredda parete di pietra. Vi era incisa a rilievo l’immagine di una menorah. «La senti?»
«Sì. Sì!» esclamò Shimon in soggezione.
«Allora premi ciascuno dei sette bracci in successione, a partire dalla destra.»
Shimon ubbidì. La parete si aprì con un cigolio. Lo spazio fu inondato dal fruscio del vento e dalla fragranza dell’incenso.
«Come facciamo a muoverci nel buio?» chiese Shimon.
«Punta in alto l’indice», spiegò Moshe. «Così. Fino a toccare il soffitto del tunnel. Sentirai tre distinte scanalature nella pietra. Infilalo in quella più ampia. Sì. Sì. Come un tram, vero? Ora aggrappati alla mia giacca. Tieni il dito in alto, non staccarlo mai dalla scanalatura. Alfie appoggerà una mano alla tua spalla. Ora possiamo partire.»
Il terzetto s’incamminò lungo il cunicolo, per la stessa via che gli antichi sacerdoti avevano seguito per entrare nel Tempio.
A beneficio di Shimon, Moshe ripeté le istruzioni impartitegli cinquant’anni prima dal vecchio rabbino Lebowitz. «Un dito nella scanalatura. Così ti farai guidare lungo l’unico passaggio che conduce alla camera dei rotoli di pergamena. Non seguire nessun altro percorso, o troverai la morte.»
Proseguirono a camminare nell’oscurità senza scambiarsi più una parola. Moshe ricordava perfettamente ciò che gli aveva detto l’anziano rabbino a proposito di Alfie. «Alfie è uno dei trentasei giusti. Per amore di quei cuori innocenti, il Signore è misericordioso e il castigo dell’Altissimo è rinviato al giorno in cui verrà il Messia.»
Da allora erano trascorsi cinquant’anni, eppure le parole di quel vecchio risuonavano nella sua mente come se le avesse pronunciate il giorno prima. Sotto la Collina del Tempio, la compagnia di Alfie era stata di conforto a Moshe. Insieme, i due avevano mantenuta segreta la loro missione di guardiani. Alfie aveva accettato con innocenza fanciullesca questa responsabilità, e la prospettiva di passare una vita intera sotto la montagna non lo aveva affatto spaventato. Ogni volta che i due avevano ripercorso a ritroso il cammino verso lo studio, Alfie era entrato nella stanza con una preghiera di gioia sulle labbra.
«Questa notte», disse sottovoce il vecchio Alfie, «stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende degli empi»1 Poi scoppiò a ridere. «Noi due siamo stati sulla soglia per un sacco di tempo, vero Moshe? Cinquant’anni e oltre, eh? Ah, bene, è arrivato il momento di passare il testimone. Quasi a casa. Siamo quasi a casa, Moshe!»
Il sentiero di pietra che si dipanava sotto i loro piedi, a volte disegnando curve e a volte proseguendo diritto, era levigato dalle centinaia di guardiani che lo avevano percorso prima di loro.
Quando la scanalatura al soffitto si interruppe bruscamente, Moshe, con gesto sicuro, individuò il basso arco dell’entrata. «Da qui dobbiamo proseguire carponi», spiegò al figlio.
«Noi siamo pellegrini», commentò Alfie gettandosi in ginocchio.
Moshe recitò la Shema‘ Isra’el, una delle tre principali preghiere dell’ortodossia: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo…»2
Alfie e Shimon ripeterono le parole familiari. Poi Alfie disse a Shimon: «è tanto che ti aspettano, Shimon».
«Papà?» sussurrò Shimon con sgomento. «Chi mi aspetta?»
Moshe non rispose. Fece scivolare le dita sulla parete liscia, scovò un segno nella pietra e spinse. Al suo tocco, la parete scricchiolò e si spostò con un sibilo. L’eco lontano della musica, unita al fischio del vento, li investì.
«Avvicinati, figliolo», ordinò Moshe. Entrando, un sensazione di spazi aperti inondò Shimon. Rimase carponi fra Moshe e Alfie. La porta si chiuse dolcemente alle loro spalle.
«Ora», disse Moshe, «Alza gli occhi».
Shimon sollevò lo sguardo e sussultò. C’era abbastanza luce da scorgere chiaramente i volti di suo padre e di Alfie. Sopra di loro, la riproduzione fedele della volta celeste visibile da Gerusalemme. Le stelle luminose, così ben riprodotte da sembrar vere, rappresentavano il cielo estivo; tra esse c’era la stella polare, che brillava come un diamante nel manubrio del Piccolo Carro.
«Lassù, Shimon, proseguì Moshe, «la stella polare che indica la via ai viaggiatori. Perfino qui, sotto la Collina del Tempio, saprai sempre dov’è il nord. Qui non puoi perderti. I nostri predecessori hanno fatto in modo che non accadesse. Ed è preciso fin nei minimi dettagli. è un dono, Shimon.»
«Un miracolo», lo corresse Alfie.
«Sì», convenne Shimon. «Un miracolo, papà! Ricordo le notti d’estate quando noi tutti dormivano sul solarium e tu ci insegnavi il nome delle stelle.»
«Ed eccole qui. Sono come vecchie amiche, queste stelle.» Moshe ne era compiaciuto. «Davide, il re pastore, le conosceva tutte per nome. Te li ricordi, Shimon?»
«Il triangolo estivo costituito da Deneb, Altair e Vega a est. Antares a sud. Regolo laggiù, nella zampa del Leone, a ovest. E Arturo dritto sopra la nostra testa.»
Le stelle artificiali erano inframmezzate alle lettere ebraiche che enunciavano: In principio Elohim creò il cielo e la terra3. E altre in oro che riproponevano i nomi di Dio: Adonai, Elohim, El-Shaddaj, Yhwh. Re dei re. Signore dei signori. Meraviglioso Consigliere. Salvatore.
La gloria del cielo brillava di luce propria, consentendo una facile lettura. «Alzati, figlio mio» gli ordinò Moshe. «Questo è ciò che ti lascio in eredità. L’anno del Signore. Anno Domini. Seguici.»
Moshe li condusse a una porticina orientale che si apriva su una balconata affacciata su un’enorme biblioteca a volta, stipata di scaffali colmi di file e file di giare di terracotta. Al centro della stanza c’erano tre enormi tavoli, altre giare, una scatola colma di torce e una scorta di batterie.
«Papà? Raccontami tutto.»
«La biblioteca del Tempio», rispose Moshe. «Dei cinquantamila rotoli originali, ne rimangono solo settemila. Per la maggior parte si tratta di documenti nascosti quando Gerusalemme venne distrutta e il Tempio bruciato. C’è una stanza colma di libri scritti man mano dai testimoni oculari. è da qui che inizierai il tuo cammino. Le cronache dell’Anno Domini, così si chiama quella sezione. è da lì che ho iniziato io quando ero poco più giovane di quanto tu non lo sia adesso. Ci sono dodici porte, e ciascuna conduce a una stanza. Una scelta assai vasta. Dopo la morte di Susan e di tua madre, io e Alfie ne abbiamo discusso a lungo. Vedi quella porta centrale, laggiù? Intagliata nella pietra si legge Le cronache dell’Anno Domini.» Moshe inclinò il capo. «Ho fatto una lista delle cose da leggere, seguendo un certo ordine. Settanta rotoli in tutto. Ti ci vorrà qualche anno. La casa sarà tua e di Luke, così potrete andare e venire a piacimento.»
Moshe guidò il figlio lungo una scala a chiocciola che conduceva al piano inferiore, fino alla biblioteca. Con un braccio gli indicò il parapetto su cui erano incise alcune parole scritte in tre lingue: ebraico, greco e latino.
CIò CHE ERA – CIò CHE è – CIò CHE SARà.
«è tutto qui», Moshe prese Shimon per mano. «Ce ne è abbastanza perché un uomo spenda tutta la vita a studiare, senza per questo arrivare a capire il valore, la profondità e la portata dell’amore di Dio per l’umanità. Io ho studiato per cinquant’anni e ne ho solo una pallida idea.»
«Papà?» borbottò Shimon. «Io ho solo un anno sabbatico!»
Alfie scoppiò a ridere. «Ah, e avrai da divertirti, Shimon! Tua mamma diceva sempre che, di tutti i suoi figli, tu saresti stato l’unico che non avrebbe mai smesso di leggere.»
«Sì, sotto le lenzuola, con una torcia elettrica», rimarcò Shimon. «Non c’era verso di farmi smettere se avevo un buon libro fra le mani.»
«Tutto allenamento», disse Alfie.
Moshe li invitò ad avvicinarsi a un tavolo dove parecchie giare di terracotta erano allineate accanto a una lampada. «Abbiamo preparato queste per te. Sono i primi tre rotoli di Gerusalemme che io e Alfie abbiamo studiato. Ma guarda, vedi questo? Ho scelto il quarto perché tu iniziassi da qui. Si intitola La luce del primo giorno.» Tamburellò leggermente con le dita sulla giara. «Qui, Shimon. Qui dentro c’è la luce che ti aiuterà ad attraversare questo momento buio della tua anima. Sì. Inizia da qui.» Moshe spinse il contenitore verso Shimon. «Vedi quelle parole impresse nell’argilla? Leggile.»
Shimon sottolineò con un dito le lettere ebraiche lungo il bordo della giara. «Il mio nome è Peniel.»
«Sì. Si chiamava Peniel.» sussurrò Moshe con affetto, come se l’autore di quello scritto fosse un suo vecchio amico. «Peniel “il volto di Dio”. Proprio così, Shimon, figlio mio. La luce del primo giorno. Su, aprilo. è da tanto tempo che attende di parlarti della luce e del buio. Dopo averlo letto ho capito cose che prima mi erano oscure.»
Shimon aprì il sigillo che chiudeva l’imboccatura della giara. Incalzato dal padre, estrasse il rotolo. Pelle di pecora. Morbida. Quasi nuova. Shimon si sedette sulla panca accanto al tavolo.
«Ora, Shimon», gli ordinò il vecchio Alfie, «tuo padre ed io studieremo insieme a te questa notte. Mi è sempre piaciuto Peniel. Su. Il tempo fugge, e noi siamo vecchi. Quasi a casa. Quasi a casa. Leggi per noi, Shimon.»
Shimon srotolò il primo incartamento. Un fiore era racchiuso fra le pagine. Una gardenia? Shimon non ne era certo. Computò le lettere ebraiche del documento.
«Coloro che vivevano nelle tenebre hanno visto una grande luce...
Guardalo. Sì. Guarda! Un tipo qualunque. è questo che lo rende tanto straordinario!
è giunto fino a noi come il grande tesoro di un re, dal valore incommensurabile, avvolto nella paglia, chiuso in un’anonima giara di terracotta, scaricato sulla terra come un normale carico di una qualunque chiatta.
Sì, la sua venuta si è svolta così. Nessuno lo sapeva davvero, no davvero.
Sì, guardalo. Un tipo comune.
Il suo nome? Yeshua. Significa «Dio è il nostro Salvatore».
Trentadue anni, secondo il computo degli uomini. Alto quasi un metro e ottanta. Abbronzato. Magro e forte. Mani grandi. Mani callose. Nocche rugose a furia di attingere secchiate d’acqua da un pozzo di pietra. Occhi castani. Castano scuro con pagliuzze d’oro. Capelli ugualmente castani, ricci, con riflessi ramati schiariti dal sole; pettinati indietro e intrecciati sulla nuca. Barba fitta e scura.
Si liscia la barba e spesso sorride quando medita su una questione che lo interessa o ascolta una canzone che gli piace. O quando tiene un bimbo fra le braccia e gli chiede “Che cosa vorrai fare da grande?” o, ancora meglio, “mi piaci così come sei”.
A prima vista non aveva niente di straordinario. Poteva mescolarsi alla folla e nessuno lo avrebbe notato finché i Suoi occhi non si fissavano nei tuoi e la compassione si riversava nella tua anima.
E ancora: dove sta la verità?
Yeshua.
La Prima Luce.
La grande alba rossa che in eterno sorge dalle montagne. Il luminoso arco di stelle che si innalza alto nel cielo e ci fa da ponte fra la terra e la porta del trono celeste.
Yeshua, il gallo mattiniero che ci desterà dalla morte, dopo che sarà trascorsa l’ultima notte dei tempi.
Per la nostra nave, sferzata dai venti, Lui è un faro.
Per coloro che dalla spiaggia scrutano il mare alla ricerca della vela, Lui è il battello di salvataggio che porta Se Stesso e i Suoi figli, prescelti tra i nostri cari, che ci hanno esclusi.
Lui ci reca il messaggio dell’eternità attraverso il vasto golfo del tempo.
Lui è la fonte della nostra speranza, la luminosa sintesi di tutte le cose. Il mistero che, anche adesso, è solo sfiorato dal cuore umano.
E allora, ascolta. Ascolta! è questo l’aspetto straordinario: sembra un tipo comune.
Era il tempo della tristezza: è così che va la vita. Spaventosa per coloro che vivono tra gli sconquassi politici, la corruzione, la violenza, la crudeltà, la futilità e la manipolazione delle menti umane. Era il tempo delle speranze infrante, anelate, perdute. E niente, niente che andasse per il verso giusto.
Come sempre, vero? Come un giorno qualunque dall’inizio del tempi, come potevamo capire che un essere straordinario stava in mezzo a noi?
L’innocente morì, mentre i malvagi prosperavano e i padri e le madri vegliavano sulle tombe dei figli , scotendo i pugni contro Dio e urlando “Perché?”.
Perché?
All’inizio solo pochi lo notarono, quando giunse fra noi, portando le risposte.
Poi la sua luce illuminò il buio e minacciò di mettere a nudo il male,
sfidando l’ipocrisia dei cosiddetti giusti,
abbracciando i deboli, dando speranza ai diseredati,
e solo allora lo notarono.
Sì.
Solo allora.
Quando sembrava che tutto potesse cambiare, allora lo notarono.
E a quel punto gli uomini dell’oscurità, coloro che tramavano perché tutto rimanesse immutato, studiarono un modo per ucciderlo.
Yeshua.
Questa è la storia di gente molto comune. Alcuni ebbero la fortuna di incontrarlo presto, e ne rimasero profondamente mutati. Ma ce ne erano altri, molti altri, che ancora vivevano nelle tenebre. In attesa. Che speravano nell’arrivo di qualcuno o di qualcosa che lenisse le ferite dell’anima e del corpo.
Quell’anno, a Pasqua, circolarono delle voci. Forse. Forse giungerà il nostro Salvatore! Decine di migliaia affollarono Gerusalemme per vederlo. Ma non giunse.
Quell’anno, al posto del Messia, paladini dell’inganno sotto il comando del ribelle bar Abba sguainarono le spade e diedero battaglia al Tempio contro Roma e le forze dell’odiato Erode Antipa.
Non potevano vincere.
In quella breve scaramuccia di Pasqua, gli zeloti ebrei, smaniosi di affrancarsi dalla schiavitù, condussero alla tomba molti pellegrini
E urla d’angoscia riempirono le strade, quella notte. Perché?
Perché? Dov’era Dio? E dov’era il Messia? Perché non è intervenuto? Nessuno lo sapeva, nessuno, tranne tre ragazzini e un vecchio pastore di nome Zadok.»

Mentre Shimon leggeva, il profumo di un giardino e il lieve sussurrare del vento turbinava attorno a loro…


Parte prima
Il popolo che camminava nelle tenebre
Vide una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,
ha aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
Come si gioisce quando si miete
E come si gioisce
Quando si divide il bottino.
Poiché tu, come al tempo di Madian,
hai spezzato il giogo che lo opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle
e il bastone del suo aguzzino.***

*** NOI CHE ABBIAMO CAMMINATO NELLE TENEBRE
ABBIAMO VISTO UNA GRANDE LUCE;
SU TUTTI COLORO CHE ABITANO UNA TERRA CUPA COME LA MORTE UNA LUCE RIFULSE

Isaia 9, 1-3



Capitolo 1

NELLA CASUPOLA DI UN VILLAGGIO di nome Betlemme, la «casa del pane», mazzi di lavanda seccavano appesi alle travi della stanza principale, inondando gli ambienti col loro dolce aroma. La cena del Seder era terminata, dopo aver intonato i canti che celebravano la liberazione di Israele dal giogo d’Egitto. Sul tavolo rimaneva la pila dei piatti sporchi.
Tre ragazzi e un cane da pastore dividevano lo stesso giaciglio fatto con gli scarti della tosatura del gregge. Avel, di nove anni, si era accucciato fra Emet, di cinque, e Ha-or Tov, di undici.
Emet e Ha-or Tov si erano assopiti, e stavano sprofondando nel sonno. Avel, nonostante le palpebre pesanti, ascoltava le voci smorzate di due uomini impegnati nella conversazione. Un cane rossiccio socchiudeva gli occhi accanto al fuoco.
Zadok, capo dei pastori delle greggi e delle mandrie di Israele, era anziano. Una benda gli copriva un occhio, la pelle era coriacea e il volto segnato dalla cicatrice di un’antica ferita. La sua voce, assieme a quella di Yeshua di Nazareth, l’ospite che si era unito a lui per Pasqua, scivolò verso la camera da letto.
«Ma se non ora, quando?», gli chiese Zadok.
Avel si alzò per ascoltare la risposta di Yeshua.
Quando?
Da che mondo è mondo, ci fu mai una domanda più importante di quella? Molte cose dipendevano dalla risposta. La redenzione, la libertà. La vendetta contro gli oppressori romani e la casta sacerdotale corrotta.
Avel appoggiò il mento sul braccio. Zadok non poneva una sola domanda, ma molte.
Quando?
Quando Yeshua avrebbe apertamente rivendicato i propri diritti al trono di Davide?
Quando avrebbe preso il comando dell’armata che avrebbe scacciato i romani da Gerusalemme e da Israele?
Quando avrebbe vendicato il sangue di coloro che erano caduti proprio quel giorno sotto le spade romane nella corte del Tempio di Gerusalemme?
«Se non ora, Signore, quando?»
E chi, se non Zadok, aveva diritto a una risposta? Zadok che, ancora bambino, era stato fra i primi pastori a vedere gli angeli e ad ascoltare il loro messaggio, il proclama divino che annunciava la nascita del Messia in una capanna a Beth-lehem.
Zadok, che per primo aveva diffuso la notizia dell’evento miracoloso fra gli anziani del Tempio, consegnando gli agnellini di Beth-lehem e Migdal Eder per il sacrificio quotidiano.
Zadok, che aveva aperto la sua casa alla giovane madre, al marito e al re appena nato.
Zadok, che in gran segreto aveva messo al sicuro la famiglia mentre i soldati di Erode, il re macellaio, erano sopraggiunti di notte al villaggio per uccidere tutti i figli maschi sotto i due anni.
Zadok, il cui viso era stato squarciato dal gladio di un romano per aver tentato di proteggere i propri figli.
Zadok, che aveva sotterrato tre ragazzini mentre il pianto della moglie, Rachele, echeggiava fra i campi di Migdal Eder e si udiva fino a Ramah.
Zadok, che per trentadue anni, e fino a quella sera, aveva mantenuto la sacra promessa di non rivelare a nessuno dove si fosse rifugiato il promesso Re di Israele.
Un uomo di tal fatta non meritava di sapere il motivo di tanta sofferenza? Di comprenderne il perché?
Quando?
Yeshua, con lo sguardo penetrante puntato negli occhi del vecchio, non rispose subito. Poi afferrò la mano di Zadok. «Tu sei stato il primo a sentire. Il primo a credere. Il primo a soffrire a causa mia. I tuoi figli sono stati i primi martiri. Di certo, amico mio, sai che non fu un caso se il Figlio di Davide nacque in una capanna fra le greggi destinate ad essere sacrificate al Tempio di Yerushalayim. Quel bimbo venuto al mondo trentadue anni fa a Beth-lehem è un korban, colui che è sacro ed è stato prescelto per servire agli scopi del Padre.»
«Ma che significa?» La voce di Zadok era intensa.
«Zadok! Tu sei il capo dei pastori del gregge del Tempio. Tu allevi gli agnelli destinati ai sacrifici. Possibile che abbia dimenticato ciò che il profeta Isaia dice a proposito del Messia?»
Zadok agitò una mano. Evidentemente, pensò Avel, il vecchio non voleva che gli si ricordasse quel passo delle Scritture. «Tanto si è scritto sul korban. Come puoi pretendere che un vecchio si ricordi tutto?»
Yeshua si lisciò la barba. Senza distogliere lo sguardo dal pastore, disse: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come un agnello condotto al macello.» 4
Tutto lì. Come se queste parole spiegassero ogni cosa.
Ha-or Tov, ora completamente sveglio, sussurrò ad Avel: «Che cosa intende dire Yeshua? Che cosa hanno a che fare gli agnelli sacrificali allevati nei pascoli di Beth-lehem con il Messia, il Redentore?»
«Credo si riferisca alle sommosse di oggi», rispose Avel.
«La pena per chi contravviene ai comandamenti dell’Altissimo è la morte», continuò Yeshua. «Questa maledizione pende sull’anima di ogni essere umano. La redenzione ha un prezzo, Zadok, amico mio. Scrive Isaia a proposito del Figlio dell’Uomo: “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori… Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità… Il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.”» 5
Zadok si chinò su di Lui. La luce del fuoco rifletteva bagliori dorati sul suo volto. «Il prezzo della nostra salvezza può essere tanto alto?»
«Domani predicherò a Beth-Anyah.»
«Così vicino a Yerushalayim! Assieme alle greggi attirerai i lupi. E ti rimetterai alla loro misericordia.»
«è arrivato il giorno in cui capiranno la Misericordia Divina.»
«Ma non in questo modo, Signore! Dimmi che non sarà così.»
«L’amore di Dio è molto profondo.»
«Ci deve essere un altro sistema! Sbaraglia i nostri nemici! Fai cadere il fuoco dal cielo! Distruggi gli iniqui! Stabilisci un Regno a Yerushalayim come Davide, il nostro re pastore! Come Te, anche lui è nato a Beth-lehem!»
«Zadok, quando i soldati di Erode sono giunti a Beth-lehem per uccidere tutti i bimbi maschi, tu hai tentato di salvare i tuoi figli.» Yeshua tastò la cicatrice sulla guancia di Zadok. Avel rimase come ipnotizzato da quella scena che tanto gli ricordava l’episodio della sua guarigione. Ma questa volta, Yeshua non levigò la profonda cicatrice né guarì l’occhio perso in battaglia, anche se Avel sapeva che avrebbe potuto farlo. «Questa ferita testimonia il tuo amore per i tuoi figli.»
«Il mio fallimento. Io sono vivo, mentre loro giacciono in una tomba.»
«Non perché hai risparmiato le tue forze. Saresti morto pur di salvarli. Ti conosco. Perfino adesso affronteresti un leone e rischieresti la vita pur di proteggere le tue greggi. Secondo te, il Figlio inviato dal Padre non farebbe altrettanto per salvare il gregge che Gli è stato affidato? Negheresti al Signore l’onore delle ferite e delle cicatrici quale prova eterna di quanto vi ama?»
«Morirei per Te, Signore.»
«Era come un agnello condotto al macello.»6
«E io sono pronto a sacrificare la mia vita! Volentieri!»
«Un giorno potrebbe accadere. Chi perderà la propria vita a causa mia, la troverà7. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna8. Prima però, il buon pastore deve sacrificare la propria vita per salvare il gregge. Questo è il prezzo che si deve pagare per redimere coloro che il Padre mio mi ha affidato. La profezia di ciò che accadrà è tutta lì, nelle parole di Mosè e dei profeti. Hanno desiderato tanto vedere ciò che voi vedete, e ascoltare ciò che voi ascoltate9. La battaglia per l’umanità sarà vinta.»
«Rabbi, allora combatteremo i nostri nemici? Insieme?»
«Non fraintendermi, amico mio… per le sue piaghe noi siamo stati guariti.10»
La profezia si librò nell’aria come il profumo della lavanda. Poi, inspiegabilmente, Avel vide il volto del vecchio contrarsi per il dolore, come se gli fosse venuto in mente qualcosa. Che significava? Si domandò Avel. Quali ricordi avevano risvegliato nel vecchio quei frammenti di versi?
Le spalle del vecchio sobbalzarono e Zadok piegò il capo con un gemito soffocato. Fece correre le dita fra i radi capelli bianchi. Che cosa aveva sentito Zadok che Avel non aveva afferrato?
Dopo un certo lasso di tempo, l’anziano pastore supplicò: «Oh, no! E dopo un inizio tanto promettente! Io ho alzato gli occhi al cielo, e ho visto le stelle brillare sopra i campi. Ho provato una tale gioia. Che meraviglioso bambino! Una simile speranza! E per che cosa? Non può finire così male!»
Scese il silenzio. Poi, finalmente, rispose Yeshua. «Non può essere diversamente.»
«Ma quando?»
«L’anno prossimo a Yerushalayim. A Pasqua.»
«Io non verrò» Zadok sollevò il mento in gesto di sfida. Ma Avel sapeva come sarebbero andate le cose: sì, Zadok sarebbe stato presente.
Yeshua si alzò in piedi e sorrise. «Non importa, amico mio. Arrivederci. A presto.» Fissò il cane fulvo. «Gli amici leali se ne sono andati e i lupi si sono impossessati del gregge di Israele. Non ti lasceranno in pace.»
Il labbro inferiore di Zadok si sporse in avanti. «Vattene dalla Giudea! So che cosa faranno! La carica di sommo sacerdote si vende e si compra. Ti temono. E dopo quanto è successo oggi al Tempio? Troveranno il modo per addossartene la colpa.»
«Non è ancora arrivato il mio momento.»
«Devi partire! Trent’anni fa ho consigliato tua madre e tuo padre a fare altrettanto. Vai in Egitto. Ad Alessandria. Ci sono veri Israeliti ad Alessandria. Al Tempio troveresti qualcuno disposto a seguirti. Quelli che ora governano Yerushalayim useranno tutto il loro potere contro di te, come già ha fatto Erode, il re macellaio. Caifa, il sommo sacerdote, è invischiato coi romani. Fino al collo. Erode Antipa dipende dai soldati romani per sedare la rivolta e cautelarsi da un eventuale attacco del re nabateo. Sono tempi pericolosi per noi tutti.»
«Le anime degli uomini hanno nemici molto più potenti di Roma. Più terribili di Erode Antipa. Non temere coloro che possono uccidere il corpo. Temi piuttosto coloro che possono distruggere la tua anima.» Yeshua lanciò un’occhiata a Avel, Emet e Ha-or Tov. «Seguite il pastore», disse, rivolto ai ragazzi. «Imparate da lui. Non prestate ascolto a nessuna altra voce e vivrete!» Poi appoggiò una mano sulla spalla di Zadok in segno di saluto. «Insegna loro la Torah come il Signore impone a ogni padre. Zadok, abbi cura del mio gregge!»
Zadok annuì, senza riuscire ad aprir bocca.
I due si strinsero la mano. «Ci rivedremo presto, non credi?» Un lampo d’intesa passò fra i due.
Avel si trattenne a stento dal correre verso Yeshua, gettargli le braccia al collo e pregarlo di non lasciarli soli e indifesi.
Yeshua passò un dito sulla mezuzah, il piccolo astuccio rettangolare che custodiva un frammento delle Scritture. Questo era il segno dell’alleanza esposto sull’uscio di tutte le case degli ebrei in memoria del sangue versato dall’agnello pasquale.
Sottovoce, Yeshua sussurrò la benedizione. «Il Signore veglierà su di te , quando esci e quando entri da ora e per sempre.11»
Le parole di Yeshua suggerivano la promessa che il Signore in persona avrebbe vegliato su di loro, pensò Avel. Allora perché era così preoccupato di vederlo andar via? Nonostante l’augurio che il Signore li avrebbe salvati, la morte si avvertiva vicina. I lupi assediavano furtivamente il gregge, puntando alle caviglie del Buon Pastore e di coloro che lo amavano.
I due uomini si abbracciarono. Senza volgere lo sguardo, Yeshua si incamminò nella notte.

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