Il coraggio di amare - Il combattimento di una madre per il figlio drogato
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Jacqueline Favre, era una madre del tutto normale, con un marito che l'amava e due figli indipendenti. Tuttavia, in una bellissima giornata estiva, bastarono tre parole per travolgere la sua vita... tuo figlio è in astinenza! Ma Jacqueline Favre, abituata da sempre a prendere in mano tutte le situazioni, con decisione ha combattuto per il figlio drogato, e questo coraggio di amare non è stato vano. Una storia vera da fare accaponare la pelle, ma che ti da' forza nelle tue traversie. I temi dei vari capitoli: Perchè ho scritto questo libro; Storia di un fenomeno sociale; Tre parole; Ritorno al passato; Senso di colpa; Cinquecento chilometri; Sulla breccia; I tormenti dell'astinenza; Da dove viene l'aiuto; Il coraggio di una nonna; Detenzione e terapia; Neanche il tempo di respirare; Combattimenti di fuori, combattimenti di dentro; Prospettive incoraggianti; Nuovo inizio; Dall'ombra alla luce; Libero; Una vita nuova; Epilogo.
ISBN: 9788880771869
Producer: Editrice Uomini Nuovi
Product Code: 9788880771869
Weight: 0,150kg
Binding: Brossura
Language: Italian

Sample chapter

Capitolo 1

Tre parole

Era una magnifica giornata di sole del giugno 1992. Io mi ero tuffata nelle faccende domestiche con animo allegro, il mio cuore esultava. Avevo un buon motivo per essere radiosa: la sera prima, io e mio marito eravamo rientrati da un fantastico viaggio in Medio Oriente, dove avevo avuto la fortuna di accompagnarlo per una sua trasferta di lavoro. Il giorno dopo, Stefano, il mio primogenito, sarebbe venuto a farci visita per qualche giorno con la sua amica Micky, e così avremmo festeggiato insieme i suoi 25 anni. E poi avrebbe visto per la prima volta la casa che avevamo acquistato solo da qualche mese. La prima stagione primaverile a casa nostra a Ozoir-la-Ferrière, una cittadina situata a circa 30 chilometri a sud-est di Parigi nel dipartimento della Seine-et-Marne.
Una casa dalla facciata color salmone, spaziosa, luminosa grazie alle sue pareti interne chiare e alla presenza di grandi vetrate. Dava su di un magnifico giardino confinante, ad un’estremità, con un piccolo bosco.
Mentre ero occupata a sistemare le valigie, scorrevano nei miei pensieri le immagini ancora fresche di un paese la cui cultura è così diversa dalla nostra. Mi misi a pulire, in seguito, il tavolo e le sedie del terrazzo, accompagnata dal cinguettio gioioso degli uccelli. Apprezzavo molto il fatto di avere un giardino e molto spazio a disposizione, considerando l’appartamento piuttosto piccolo in cui vivevamo prima a Parigi.
Mi piace molto l’atmosfera del mese di giugno, l’estate è lì pronta a schiudersi davanti a noi con tutti quei progetti che si fanno per queste lunghe giornate che la stagione ci offre. La natura è una vera esplosione di verde e di colori. Nel giardino bisognava ancora effettuare tutti i lavori: piantare, seminare. Solo il noce, che avevamo ricevuto in eredità, si imponeva per i suoi anni di anzianità, promettendoci un abbondante raccolto di noci in autunno.
I due innamorati sarebbero arrivati in treno dalla Svizzera e la sera avrebbero assistito ad un mega concerto hard rock. Io, in verità, non apprezzo molto questo genere di musica aggressiva, proposta da molti gruppi perché alimenta violenza, rivendicazioni e spinge all’assunzione di droghe. Ma alla fine mi davo un contegno di madre moderna per cercare di comprendere i giovani.
Alcuni amici avevano messo a loro disposizione uno studio per trascorrere la notte a Parigi. Il giorno dopo mio marito sarebbe andato a prenderli in auto. Gli avvenimenti mi ritornano così vivi e forti nella mente da pensare che tutto sia successo solo ieri. La domenica era splendida, il cielo di un blu intenso, punteggiato solo qua e là da qualche nuvoletta simile a bambagia. Nessuna ombra poteva oscurare questo armonioso e sublime acquarello dipinto dalla mano divina del Creatore. Avevo preparato con cura un buon pranzo, ma Stefano non si sentiva bene, non aveva appetito neanche per il gratin dauphinois per cui impazziva. Preferì stendersi un po’.
Non era una cosa grave, un malessere passeggero, avrebbe mangiato più tardi. Micky ci raccontava che Stefano non era rimasto fino alla fine del concerto, accampando il pretesto di non sentirsi in piena forma. Si erano poi ritrovati nell’alloggio avuto in prestito. Questo fatto mi stupiva: venire appositamente da Losanna a Parigi per ascoltare uno dei suoi gruppi preferiti e andarsene prima della fine! A lei piaceva così tanto questa musica da non sentirsi sospinta ad accompagnarlo in questa grande città sconosciuta? Io, poi, non volevo neanche fare troppi commenti su quanto detto, evitando nello stesso tempo di attribuirgli troppa importanza. Dopo tutto erano affari loro!
Stefano stava cercando di dormire al primo piano e a me dispiaceva vivamente che lui non potesse godere di quel bel pomeriggio di sole. Io e Micky, distese comodamente su due sedie a sdraio all’ombra di una grande tenda a strisce bianche e blu, chiacchieravamo del più e del meno. Le mostrai poi degli album di fotografie in cui appariva Stefano bambino, lei ne fu piacevolmente sorpresa e io orgogliosa di esserne la madre. Micky è originaria dell’India. Essendo orfana, venne adottata da una famiglia svizzera all’età di sei anni. Era così carina con i suoi lunghi capelli neri, che le incorniciavano il viso, dal colorito scuro e con i denti di un bianco splendente che contrastavano con i suoi grandi occhi scuri.
Stefano intanto ci aveva raggiunto. Non stava meglio ed era evidente che faceva un grosso sforzo per non mostrarci la sua indisposizione. Io mi misi a cercare nella nostra farmacia un medicinale per calmare il suo mal di pancia.
Il giorno dopo sarebbe stato il suo compleanno, ma stava ancora troppo male per potersene rallegrare. Non riuscendo a star fermo, andava avanti e indietro per la casa, salendo e scendendo le scale parecchie volte di seguito. Io lo guardavo disarmata, non potendo fare alcunché per alleviare le sue pene. Micky non dava segnali di nervosismo, come se tutto questo le fosse familiare. Ciò mi stupì! Sentivo un malessere crescente regnare tra di noi.
Mio marito stava lavorando nel suo studio mentre noi eravamo sul terrazzo. Io stavo apparecchiando la tavola per la merenda in un modo disinvolto e gaio per rallegrare il clima di tensione che si era creato. Vedo ancora Micky, accovacciata, accarezzare con le sue dita fini l’erba spuntata da poco. Improvvisamente, poi, si rivolse a Stefano, che percorreva alquanto nervosamente il terrazzo in lungo e in largo, con queste parole:
“Bisogna che tu glielo dica.”
Lui non rispose nulla. Stava male e non aveva voglia di parlare, era chiaro. Scossa e a disagio, per rompere quell’atmosfera fastidiosa ed estranea alla festa, chiesi:
“Dirmi che cosa?”
Non ricevendo nessuna risposta, continuai spinta dalla curiosità:
“Ma che cosa c’è?”
Seguì un silenzio di piombo. Poi, improvvisamente, senza guardarmi, lei disse bruscamente con un filo di voce:
“è in astinenza!”
Impietrita, gli occhi sbarrati e la bocca aperta, queste tre parole mi colpirono come una freccia in pieno petto. Il pavimento mi sprofondò sotto i piedi ed io, come schiacciata, mi lasciai cadere su di una sedia. Rimasi lì inchiodata, immobile, pietrificata…
Se fino a quel preciso momento ero nell’ignoranza totale, sei semplici sillabe, che caddero su di me come un uragano, mi fecero comprendere all’istante ogni cosa. Non avevo certo bisogno di esclamare ulteriormente: “In astinenza di che cosa?” Capii immediatamente di che cosa si trattava. La bomba a scoppio ritardato era esplosa!
Queste tre parole mulinavano nella mia testa e vibravano in tutte le fibre del mio essere. Ero percorsa da brividi in tutto il mio corpo e di certo stavo tremando. Tutto intorno a me si fece scuro e anche la primavera perse il suo splendore. Io non sentivo più i caldi raggi del sole accarezzarmi la pelle, il cielo sfumò il suo colore azzurro e i colori dei fiori e delle foglie sbiadirono. La musica melodiosa della felicità si trasformò all’improvviso in un crescendo di stonature assordanti. Sul tavolo la torta di compleanno, una torta gelato, incominciò a fondere e si trasformò in una crema tiepida. Del resto, chi avrebbe avuto voglia di assaggiarla? Tutto mi sembrava ovattato, ma ero del tutto cosciente che non stavo sognando.
Senza preavviso, senza alcun presentimento, nello spazio di un secondo, il tempo necessario per voltare la pagina di un libro, io mi trovai proiettata in un altro mondo e a confronto con un’area a me sconosciuta. Avrei voluto fermare il tempo, tornare indietro per evitare di riascoltare quelle tre parole le cui sillabe risuonavano con accanimento nella parte più profonda di me stessa. Non esisteva più nessun’altra cosa, tutto ruotava orrendamente intorno a quella frase. Con il cuore spezzato e un dolore acuto allo stomaco, mi sentivo annientata dalla sorte che la vita mi aveva riservato.
Con la gola chiusa, ero senza voce. Micky, vedendo il mio stupore, cercò in qualche modo di rompere quel lungo e angoscioso silenzio sospeso nel vuoto.
“Stefano non voleva che ve lo dicessi”.
Io non riuscivo a fissare lo sguardo su mio figlio. Mi alzai di scatto e mi recai in cucina. Micky mi raggiunse.
“Jacqueline!”
Lasciai cadere il piatto che avevo tra le mani, che si ruppe in mille pezzi contro il pavimento.
“Non è nulla!” dissi.
Mi affrettai a cercare lo scopino e la paletta, quasi sollevata per un breve istante da questa diversione prodotta dal dover raccogliere i cocci.
Rialzai la testa e chiesi:
“Che…che tipo di droga?”
Micky, con un’espressione compassionevole, mi rispose:
“L’eroina!”
Mi sentii straziare l’anima.
Che cosa potevo dire? Che cosa dovevo fare? Sconvolta, totalmente sconcertata, impaurita, mi trovavo in una situazione impensabile per me e per la nostra famiglia. Mormoravo tra me: “Perché…come?” Quelle tre parole cocenti: “è in astinenza” mi martellavano continuamente in testa. Stavano aprendo in maniera orribile una porta su di un universo a me sconosciuto, su di una realtà estranea alla mia vita. Gravi di conseguenze, gettavano un ponte tra due rocce, sospeso al di sopra di un burrone. Ponte che io dovevo attraversare senza indugio per trovarmi subito nel mondo di mio figlio, il mondo della droga. Lo scandalo della droga era entrato nella nostra famiglia, non in quella di altri, ma la nostra! Pensavo che fossimo gli unici al mondo ad essere colpiti da questa piaga. Avevo paura. “Com’è possibile? Come mai non me ne sono accorta e non ho avuto il minimo sospetto?” Tutte queste domande mi mulinavano nella testa. Mi sentivo un’idiota, piena persino di vergogna nell’essere stata così ingenua.
Non avendo un temperamento da lasciarmi abbattere più a lungo o da restare inerte, sentivo che dovevo fare qualche cosa, reagire subito. Certo, se avessi preso in mano la situazione, avrei risolto questo problema. Il mio carattere alquanto positivo o forse la mia spensieratezza rifiutavano di vedere le cose più nere di quello che fossero e non volevo drammatizzare. Innanzitutto avrei evitato di parlarne con mio marito. Sperando che le cose si sarebbero sistemate rapidamente e che il malessere di Stefano si sarebbe rivelato solo passeggero, vedevo inutile creargli delle inquietudini.
Ansioso, Stefano spiava la mia reazione. Era imbarazzato, ma sollevato nello stesso tempo dall’idea che io finalmente ero venuta a conoscenza della sua condizione. Non diceva nulla. Io nemmeno. Che cosa dire? Muovere dei rimproveri? Non me ne veniva nessuno alla mente. Provavo soltanto un sentimento di grande pietà, mi faceva male vederlo soffrire.
Non fu più possibile tenere mio marito all’oscuro della vicenda. D’altronde, data l’atmosfera pesante e sorniona che si era creata, egli incominciò a sospettare qualche cosa. Allora affrontai la questione:
“Ho qualche cosa da dirti…di grave…” dissi, tutta esitante.
Ero così imbarazzata e impacciata che continuai quasi senza articolare le parole, come per voler attenuare la realtà:
“Stefano…si droga”.
Speravo che non avesse afferrato subito il concetto e che le mie parole avessero avuto un significato sfumato, ma lo vidi impallidire. Questa notizia gli sembrò irreale e dalla sua bocca uscirono gli stessi interrogativi:
“Non è possibile! Come?”
Dovevamo agire il più in fretta possibile, ma da dove incominciare?
Stefano e Micky dovevano riprendere il treno martedì sera per Losanna. Bisognava dunque, almeno in un primo tempo, cercare di alleviare la situazione di nostro figlio ed evitare che si sentisse troppo male durante il viaggio di ritorno. Non conoscevamo ancora dei dottori di Ozoir-la-Ferrière perché ci eravamo trasferiti lì solo da poco tempo. Sull’elenco telefonico a caso scelsi un nome. Non fu possibile avere un appuntamento per quella sera, bisognava aspettare fino all’indomani. Ma non potevamo aspettare! Composi allora tutti i numeri di telefono della lista dei medici generici della zona, ma senza successo. Allora saltai in auto, chiedendo a Stefano di accompagnarmi, e precipitosamente entrai nell’ambulatorio medico più vicino. La segretaria, seduta dietro una vetrata austera, stava conversando al telefono. Il suo dialogo non sembrava per nulla professionale, così le manifestai la mia impazienza picchiettando le chiavi sul bancone e facendo dei piccoli sospiri in quel locale troppo vuoto, troppo bianco, contornato da porte chiuse. Notando la mia apprensione, la donna staccò il suo orecchio dal ricevitore e mi chiese:
“Che cosa desidera?”
La mia presenza la disturbava visibilmente.
“C’è un dottore disponibile? è per mio figlio…un problema di…di droga…”
Mi sorpresi di aver osato proferire queste ultime parole. La sua reazione di stupore mi diede l’impressione che avesse ascoltato per la prima volta nella sua vita la parola droga.
“No, sono desolata, è necessario prendere prima un appuntamento”, mi rispose.
Poi riprese la sua conversazione telefonica alquanto banale, cercando nello stesso tempo in una spessa agenda aperta davanti a sé una data disponibile. La sua risposta mi fece l’effetto di una doccia fredda. Era totalmente estranea alla mia inquietudine. Per la prima volta mi sentii sola di fronte a questa situazione: mi resi anche conto che avrei dovuto cavarmela da sola! Sembrava che io fossi l’unica madre al mondo a vivere questo problema. La mia vita era stata messa completamente a soqquadro. Questa donna non capiva e del resto non poteva neanche capire. In effetti ce l’avevo con lei! La sua mancanza di benevolenza e il suo disinteresse mi avevano costernata.
“Lasci perdere”, le dissi, facendole segno di non fissarmi appuntamenti, come se tutto questo non rivestisse per me più alcuna importanza.
Molto delusa, uscii.
Le farmacie non vendevano le medicine proposte da Stefano e per i farmaci equivalenti era necessaria la ricetta medica. Allora, rassegnati, avremmo aspettato l’appuntamento già preso con il medico per il giorno dopo. Afflitto e giù di tono fisicamente, Stefano mi lasciava fare pur sapendo che tutti i miei sforzi non sarebbero serviti a nulla. Non era di un dottore o di un rimedio di cui aveva bisogno, ma solo di un po’ di polvere bianca. Non poteva spiegarmelo, perché non voleva aumentare le mie sofferenze, coinvolgermi nel suo problema. Stava sperimentando un’astinenza da droga, ma io ignoravo che cosa ciò volesse veramente dire.
Il giorno dopo, di buon’ora, eravamo nell’ambulatorio del medico. Le domande che rivolgeva a Stefano mi facevano intendere che non conosceva niente affatto questo problema. Mi dava la sensazione che stesse affrontando la realtà della tossicodipendenza per la prima volta. Stefano rispondeva con una certa vaghezza, perché non aveva nessuna intenzione di mettere a nudo la sua vita. L’interrogatorio del medico metteva l’accento su di un aspetto astratto e non sfociava in nulla di concreto. Allora, esasperata, tagliai corto richiedendo semplicemente un calmante per dare sollievo a mio figlio durante il suo viaggio di ritorno. Il seguito, lo avremmo visto dopo! Del resto, pensavo, non ci sarebbe stato un seguito, perché ero convinta che con delle medicine appropriate avrebbe risolto rapidamente il problema. Mi illudevo, inoltre, che, essendo adesso al corrente della situazione, tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Prima di riaccompagnare i ragazzi in auto alla stazione, Stefano cercò con tutta la sua buona volontà di rassicurare sia me che mio marito:
“Non succederà più. Micky mi aiuterà a non ricadere nella droga. Non dovete preoccuparvi”.
Era infastidito, ma anche sollevato nel saperci al corrente della situazione. Ne soffriva visibilmente. Io pensavo che era preferibile saperlo, anzi in me c’era il rammarico per non avere scoperto molto prima il suo problema. Avrei voluto capirci di più, ma lui, poco incline a parlarne, si manteneva evasivo. D’altronde non era nelle condizioni fisiche adatte per rispondere alle mie domande. Allora mi proposi di non torturarlo oltre.
Sul marciapiede della stazione mio figlio riuscì così bene a tranquillizzarmi da farmi sentire fiduciosa. Rassicurata un po’, ma invasa da una grande compassione, lo vidi partire.

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