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Capitolo 1
IL CENTESIMO ANNIVERSARIO
Quella mattina balzai giù dal letto con un solo pensiero: sole o nebbia? Generalmente in Olanda nel mese di gennaio c’era una nebbia umida, gelida e grigia. Ma di tanto in tanto – una cosa rara, magica – sbucava un pallido sole invernale. Mi sporsi quanto più potevo dalla sola finestra della mia camera da letto; dalla Beje era sempre difficile vedere il cielo. Lo sguardo mi veniva riflesso da pareti lucide di mattone, la parte posteriore di altri antichi edifici in questo affollato centro della vecchia Haarlem. Ma lassù, dove il mio collo si piegava per vedere, al disopra dei tetti irregolari e dei camini storti, c’era un angoletto di cielo pallido, perlaceo. Avremmo avuto una giornata di sole per il ricevimento!
Tentai un passo di danza mentre toglievo il mio nuovo vestito dal vecchio guardaroba sbilenco appoggiato alla parete. La camera da letto di mio padre era proprio sotto la mia, ma a settantasette anni dormiva profondamente. Ecco un vantaggio dell’invecchiare, pensavo, mentre infilavo le braccia nelle maniche, osservando l’effetto nello specchio sull’anta del guardaroba. Sebbene nel 1937 alcune donne olandesi portassero le sottane al ginocchio, la mia la mantenevo ancora a una cauta decina di centimetri al disopra delle scarpe.
Anche tu non sei più tanto giovane, ricordai alla mia immagine riflessa. Forse era la nuova veste che mi faceva guardare a me stessa più criticamente del solito: quarantacinquenne, nubile; il vitino da tempo era sparito.
Mia sorella Betsie, sebbene avesse sette anni più di me, aveva tuttora quella grazia snella che faceva voltare la gente a guardarla per strada. Il cielo sa che non si trattava dei suoi abiti; il nostro piccolo negozio di orologi non aveva mai fruttato molti soldi. Ma quando Betsie indossava un vestito, ad esso accadeva qualcosa di straordinario.
Addosso a me, fino a che Betsie non provvedeva, gli orli cadevano, le calze si strappavano e i colletti si rigiravano. Ma oggi, pensai allontanandomi dallo specchio quanto più potevo, l’effetto del marrone scuro era molto elegante.
Di sotto, dal lato della strada, suonò il campanello. Visite? Prima delle sette del mattino? Aprii la porta della mia camera da letto e mi precipitai giù per la scala ripida e tortuosa. Queste scale erano state un ripensamento nella curiosa vecchia casa. Infatti si trattava di due case. Quella che dava sulla strada era una tipica minuscola struttura della vecchia Haarlem, alta tre piani, della larghezza di due camere, e di una sola di profondità. In un momento ignoto della sua lunga storia la sua parete posteriore era stata bucata per unirla con la casa ancora più sottile ed erta che le stava dietro: che aveva soltanto tre camere poste l’una sopra l’altra e fra queste era stata infilata l’angusta scala a chiocciola.
Per quanto fossi stata svelta, Betsie era arrivata prima di me. Un enorme fascio di fiori riempiva la porta. Quando Betsie li prese, comparve un piccolo fattorino. “Bella giornata per il ricevimento, signorina” disse, cercando di sbirciare oltre i fiori come se fossero stati già pronti il caffè e il dolce. Sarebbe venuto più tardi al ricevimento come, a quanto pareva, tutta Haarlem.
Betsie ed io cercammo nel mazzo il biglietto da visita. “Pickwick!” esclamammo insieme.
Pickwick era un cliente enormemente ricco il quale non soltanto comprava gli orologi più belli ma spesso veniva nella parte della casa appartenente alla famiglia, sopra al negozio. Il suo nome effettivo era Herman Sluring; Pickwick era il nomignolo che Betsie ed io adoperavamo tra noi, essendo quell’uomo tanto simile al personaggio illustrato nella nostra copia del libro di Dickens. Senza dubbio Herman Sluring era l’uomo più brutto di Haarlem. Basso, immensamente grasso, la testa calva come un formaggio olandese; aveva gli occhi talmente strabici che non si sapeva mai precisamente se stesse guardando voi o qualcun altro; ed era gentile e generoso quanto spaventoso a vedersi.
I fiori erano stati portati all’ingresso laterale, quello che adoperava la famiglia e che dava in un angusto vicoletto. Betsie ed io li portammo nel negozio, passando per il laboratorio dove si riparavano orologi e pendole. Lì stava l’alto bancone sul quale papà si era curvato per tanti anni, facendo il lavoro delicato e coscienzioso che era noto come il migliore d’Olanda; il mio banco stava al centro della stanza; vicino al mio c’era quello di Hans, l’apprendista, e contro la parete quello del vecchio Christoffels.
Oltre il laboratorio si trovava la parte del negozio riservata ai clienti, con la sua vetrina piena di orologi. Tutti gli orologi da muro suonavano le sette quando Betsie ed io vi portammo i fiori, cercando il posto più artistico in cui collocarli. Sin dall’infanzia mi era piaciuto entrare in questa camera dove mi accoglievano amichevolmente cento voci che ticchettavano. Dentro era ancora scuro perché non erano state ancora aperte le imposte delle finestre sulla strada. Aprii la porta d’entrata e uscii nella Barteljorisstraat. Gli altri negozi lungo l’angusta via erano chiusi e silenziosi: l’ottico della porta accanto, la sartoria, il panettiere e i pellicciai Weil dall’altra parte della strada.
Ripiegai le nostre imposte e rimasi per un istante ad ammirare l’esposizione della vetrina sulla quale Betsie ed io ci eravamo finalmente messe d’accordo. Questa vetrina era sempre stata una grande fonte di discussione fra noi, giacché io desideravo esporre quanto più materiale del nostro magazzino si riuscisse a stringere sul ripiano, mentre Betsie era del parere che con due o tre orologi belli (e forse tra di loro un pezzo di seta o di satin) sarebbe stato più elegante ed invitante. Ma questa volta la vetrina soddisfaceva tutte e due: aveva una collezione di pendole e di orologi da tasca tutti per lo meno di cento anni, presi a prestito per l’occasione da amici e antiquari di tutta la città. Perché quel giorno era il centesimo anniversario del nostro negozio. In questa stessa giornata del gennaio 1837, il padre di papà aveva apposto in questa vetrina un’insegna: TEN BOOM, OROLOGI.
Per gli ultimi dieci minuti, con una sublime noncuranza per la precisione nel tempo, le campane delle chiese di Haarlem erano andate suonando le ore sette, e adesso, mezzo isolato più in là nella piazza della città, la grande campana di San Bavone batté solennemente sette volte. Mi fermai nella strada a contarle sebbene in quell’alba di gennaio facesse freddo. Certo ormai tutti ad Haarlem avevano la radio, ma potevo ricordarmi quando la vita della città era regolata sul tempo di San Bavone e soltanto i ferrovieri ed altri che avevano bisogno di conoscere l’ora esatta venivano a leggere da noi “l’orologio astronomico”.
Papà ogni settimana prendeva il treno per Amsterdam per riportarne l’ora dall’Osservatorio Navale ed era per lui fonte di orgoglio che in sette giorni l’orologio astronomico non sgarrasse mai per più di due secondi. Tuttora stava lì, mentre io rientravo nel negozio, ancora alto e splendente sul suo blocco di cemento armato, benché la sua importanza fosse ormai passata.
Il campanello della porta sul vicolo suonò ancora. Altri fiori.
Continuò così per un’ora, con fasci grandi e piccoli, composizioni elaborate e piante cresciute in casa in vasi di coccio. Perché, sebbene il ricevimento fosse per il negozio, l’affetto di un’intera città era per papà, “Il grande vecchio di Haarlem”, come veniva chiamato, e lo stavano dimostrando. Quando il negozio e il laboratorio non poterono più accogliere nemmeno un altro mazzolino, Betsie ed io incominciammo a portarli al piano di sopra, nelle due camere sovrastanti il negozio. Sebbene fossero passati vent’anni dalla sua morte, queste erano ancora “le camere di zia Jans”. Zia Jans era la sorella maggiore di mia madre e la sua presenza si avvertiva ancora nel massiccio mobilio che aveva lasciato. Betsie depose un vaso di tulipani di serra e arretrò con un piccolo grido di piacere. “Corrie, guarda come è più vivace!”
Povera Betsie. La Beje era tanto chiusa fra le case che le stavano intorno che le piante da balcone che ricompravamo ogni primavera non arrivavano mai ad essere abbastanza alte da fiorire.
Alle 7:45 arrivò Hans, l’apprendista, e alle 8:00 Toos, la nostra commessa e ragioniera. Toos era una persona dal volto acido e accigliato, il cui cattivo carattere le aveva reso impossibile mantenere a lungo un impiego fino a che, dieci anni prima, era venuta a lavorare per papà. La squisita cortesia di papà l’aveva disarmata e raddolcita e sebbene sarebbe morta piuttosto che ammetterlo, lo amava con tanto ardore quanto ne poneva nel non amare il resto del mondo. Lasciammo che Hans e Toos rispondessero al campanello e salimmo al piano di sopra per la nostra colazione.
Solo tre posti a tavola, pensai, e misi i piatti. La sala da pranzo era nella casa posteriore, di cinque gradini più alta del negozio ma più bassa delle camere di zia Jans. Per me questa stanza con la sua sola finestra che guardava nel vicolo era il cuore della casa. La tavola, con una coperta buttata sopra, era stata per me quando ero piccola una tenda o la grotta di un pirata. Da scolaretta avevo fatto qui i miei compiti. Qui, nelle sere d’inverno, mamma ci leggeva ad alta voce i racconti di Dickens mentre il carbone sibilava nel camino di mattoni e gettava un riflesso di luce rossa sul quadretto che proclamava: “Gesù è vincitore”.
Ora adoperavamo soltanto un angolo della tavola, papà, Betsie ed io, ma per me il resto della famiglia era sempre presente. C’era la seggiola di mamma e i posti delle tre zie (non soltanto zia Jans ma anche le altre due sorelle di mamma avevano vissuto con noi). Vicino a me sedeva l’altra mia sorella, Nollie, e Willem, il solo maschio nella famiglia, più in là, vicino a papà.
Nollie e Willem da parecchi anni ormai avevano case proprie e mamma e le zie erano morte, ma mi sembrava ancora di vederle lì. Certo le loro seggiole non erano rimaste vuote molto tempo. Papà non poteva sopportare una casa senza bambini e ogni qualvolta udiva di un bambino che avesse bisogno di una casa, un nuovo volto compariva a tavola. In un modo o nell’altro, con il suo negozio di orologi che non procurava soldi, nutrì, vestì e curò altri undici bambini dopo che i suoi quattro furono cresciuti. Ma ora anche questi erano diventati adulti, si erano sposati o erano andati fuori a lavorare, e così posi tre piatti sulla tavola.
Betsie portò il caffè dalla piccola cucina, che era poco più che un ripostiglio vicino alla sala da pranzo, e prese il pane da un cassetto nella madia. Stava disponendoli sulla tavola quando udimmo il passo di papà che scendeva la scala. Ora andava adagio sulla scala a chiocciola; tuttavia, puntuale come uno dei suoi orologi, come ogni mattina entrò nella sala da pranzo alle otto e dieci.
“Papà!” dissi baciandolo e gustando l’aroma di sigari di cui era sempre impregnata la sua lunga barba, “Una giornata di sole per il ricevimento!”
Ormai i capelli e la barba di mio padre erano bianchi come la più bella tovaglia che Betsie aveva steso per questa giornata speciale. Ma i suoi occhi azzurri dietro gli spessi occhiali rotondi erano dolci e allegri come sempre ed egli passò lo sguardo dall’una all’altra di noi con viva gioia.
“Corrie, mia cara! Mia cara Betsie! Come siete allegre e carine tutte e due!”
Quando sedette curvò il capo, dette la benedizione al pane e proseguì con entusiasmo: “Vostra mamma... quanto le sarebbero piaciuti questi nuovi stili e il vedervi così carine tutte e due!”
Betsie ed io guardavamo fisse nel nostro caffè per evitare di ridere. Questi “nuovi stili” erano la disperazione delle nostre giovani nipoti che cercavano sempre di farci indossare vesti a colori più vivaci, sottane più corte e scollature più profonde. Ma sebbene fossimo tanto moderate, era vero che la mamma non aveva avuto mai niente di tanto vivace come la mia veste marrone scuro o quella blu di Betsie. Ai tempi della mamma le donne sposate, e quelle non sposate di “una certa età”, portavano vesti nere dal mento a terra. Non avevo mai visto lei e le zie indossare un qualsiasi altro colore.
“Come tutto quello che c’è oggi sarebbe piaciuto a mamma!”, disse Betsie. “Vi ricordate come le piacevano le ‘occasioni’ ?”
Mamma avrebbe fatto molto presto a preparare un caffè e un dolce al forno, e dato che a Haarlem conosceva quasi tutti, e specialmente i poveri, i malati e i diseredati, non vi era quasi giorno dell’anno che non costituisse per qualcuno, come avrebbe detto con gli occhi luccicanti, “Un’occasione veramente speciale!”
E così, come accade spesso negli anniversari, sedevamo intorno al nostro caffè ripensando al tempo in cui mamma era viva e al tempo in cui papà era un ragazzino che cresceva in questa stessa casa. “Sono nato proprio in questa camera” disse, come se non ce lo avesse ripetuto cento volte. “Solo, naturalmente, allora non era la sala da pranzo ma una camera da letto e il letto era una specie di armadio sistemato nella parete, senza finestre, senza luce o aria di sorta. Fui il primo bambino che sopravvisse. Non so quanti ce ne fossero stati prima di me ma morirono tutti. La mamma, vedete, aveva la tubercolosi, e nessuno allora parlava di aria contaminata o di tenere i bambini lontani dagli ammalati”.
Era la giornata per le memorie, una giornata per richiamare il passato. Come avremmo potuto mai immaginare, mentre sedevamo lì noi due zitelle di mezza età e un vecchio, che al posto delle memorie stavamo per avere avventure come non ne avevamo mai sognate. Avventure e angosce, orrore e cielo erano proprio dietro l’angolo e non lo sapevamo. O papà, Betsie! Se l’avessi saputo sarei andata avanti? Avrei fatto ciò che poi feci?
Ma come potevo saperlo? Come potevo immaginare che questo vecchio dai capelli bianchi, chiamato Opa — Nonno — da tutti i bambini di Haarlem, come potevo immaginare che questo vecchio sarebbe stato buttato da degli stranieri in una tomba senza nome? E Betsie, con il suo alto colletto di pizzo e il suo dono di creare intorno a sé la bellezza, come potevo immaginare questa persona, cara più di chiunque altro sulla terra, nuda in una stanza piena di uomini? In quella camera, in quel giorno, simili cose non erano neanche pensabili.
Papà si alzò e prese dallo scaffale la grande Bibbia dalle cerniere di ottone mentre Toos e Hans bussavano alla porta ed entravano.
La lettura delle Scritture, alle otto e mezza di ogni mattina e per tutti che si trovavano nella casa, era un altro dei cardini intorno ai quali si svolgeva la vita nella Beje. Papà aprì il grande volume e Betsie ed io rimanemmo con il fiato sospeso. Certo, con ancora tante cose da fare, non avrebbe letto proprio oggi un capitolo intero! Ma voltava le pagine fino al Vangelo di Luca, dove ci eravamo interrotti il giorno prima: e Luca ha capitoli tanto lunghi! Mettendo un dito come segno, papà sollevò lo sguardo:
“Dov’è Christoffels?”
Christoffels era il terzo e ultimo impiegato del negozio, un omino curvo e rattrappito che sembrava più vecchio di papà sebbene avesse dieci anni di meno. Ricordavo il giorno, sei o sette anni prima, in cui era venuto per la prima volta nel negozio, così stracciato e triste che avevo supposto fosse uno degli accattoni che consideravano la Beje come un pasto sicuro.
Stavo per mandarlo su in cucina dove Betsie teneva in caldo una pentola di minestra, quando annunciò con grande dignità che aveva preso in seria considerazione di trovarsi un impiego permanente, e offriva a noi per primi i suoi servigi.
Risultò che Christoffels apparteneva a una industria quasi scomparsa, quella degli orologiai itineranti, che andavano avanti e indietro attraverso il paese, regolando e riparando gli alti orologi a pendolo che erano l’orgoglio di ogni casa olandese. Ma se ero rimasta sorpresa dal modo di fare grandioso di questo omino insignificante, lo fui ancor di più quando papà lo assunse sul posto.
“Sono i più bravi orologiai che esistano” mi disse più tardi. “Non c’è lavoro che non abbiano mai eseguito usando solo gli strumenti che portano nel loro sacco”.
E ciò fu dimostrato attraverso gli anni, man mano che la gente di tutta Haarlem gli portava i suoi orologi. Non sapevamo quel che facesse con la sua paga; era rimasto malconcio e misero come sempre. Papà aveva tentato qualche accenno nel modo più discreto – dato che oltre alla pitoccheria, la più notevole qualità di Christoffels era il suo orgoglio – ma aveva infine rinunciato.
Ed ora, per la prima volta, Christoffels era in ritardo.
Papà pulì i suoi occhiali con il tovagliolo e incominciò a leggere; la sua voce profonda sostava amorevolmente sulle parole. Aveva raggiunto il fondo della pagina quando udimmo sulle scale i passi strascicati di Christoffels. La porta si aprì e tutti rimanemmo a bocca aperta. Christoffels era lì, splendente in un nuovo abito nero, con un gilet a scacchi pure nuovo, una camicia bianca come la neve, la cravatta a fioroni e il colletto duro inamidato. Distolsi lo sguardo da quello spettacolo il più rapidamente possibile perché l’espressione di Christoffels ci vietava di osservare alcunché di fuori dell’ordinario.
“Christoffels, mio caro collaboratore”, mormorò papà con la sua maniera formale all’antica, “che gioia vedervi in questo... giorno pieno di auspici”. E velocemente riprese a leggere la sua Bibbia.
Prima che raggiungesse la fine del capitolo i campanelli delle porte ricominciarono a suonare, tanto quello del negozio sulla strada quanto quello del portone di famiglia nel vicolo. Betsie corse a fare altro caffè e a mettere in forno le sue tartine mentre Toos ed io correvamo alle porte. Sembrava che tutti in Haarlem volessero essere i primi a stringere le mani di papà. Ben presto una corrente continua di ospiti risaliva l’angusta scala a chiocciola fino alla camera di zia Jans dove egli sedeva sperduto in un cespuglio di fiori. Stavo aiutando uno degli ospiti più anziani a salire la scala quando Betsie mi prese un braccio.
“Corrie! Avremmo bisogno subito delle tazzine di Nollie! Come possiamo...?”
“Andrò a prenderle!”
Nostra sorella Nollie e suo marito sarebbero venuti quel pomeriggio appena i loro sei bambini fossero ritornati a casa da scuola. Mi precipitai giù per le scale, presi il cappotto e la bicicletta dall’ingresso sul vicolo e già la stavo facendo uscire dalla porta quando la voce di Betsie mi raggiunse, dolce ma ferma.
“Corrie, la tua veste nuova!”
E così tornai di corsa su per le scale fino in camera, mi cambiai mettendo la mia vecchia sottana e mi avviai quindi lungo l’ammattonato delle strade. Mi faceva sempre piacere andare in bicicletta alla casa di Nollie. Lei e suo marito vivevano a circa due chilometri dalla Beje, fuori dal vecchio centro intasato della città. Le strade lì erano più ampie e più dritte; anche il cielo sembrava più grande. Pedalai attraverso la piazza della città, oltre il ponte sul canale della Grote Hout e lungo la Wagenweg, godendomi il pallido sole invernale. Nollie viveva sulla Bos en Hoven Straat, un isolato di case identiche legate l’una all’altra e con le finestre decorate di tendine bianche e vasi di piante.
Mentre giravo l’angolo, avrei mai potuto prevedere che in un futuro giorno d’estate, quando nei vicini campi i giacinti sarebbero fioriti e bruni, avrei dovuto fermare qui la mia bicicletta rimanendo con il cuore in gola, senza osare andare avanti per la paura di quel che stava accadendo dietro le tendine inamidate di Nollie?
Quel giorno, invece, rovesciai la bici sul marciapiede e piombai attraverso la porta senza neanche bussare.
“Nollie, la Beje è già piena zeppa! Dovresti vedere! Abbiamo bisogno subito delle tazzine”.
Nollie uscì dalla cucina, con il suo grazioso visino rotondo arrossato dal lavoro al forno. “Sono tutte impacchettate vicino alla porta. Quanto vorrei tornare indietro con te, ma ho ancora da fare una quantità di pasticcini e ho promesso a Flip e ai bambini che li avrei aspettati”.
“Venite tutti, non è vero?”
“Sì, Corrie, verrà anche Peter”. Nollie stava caricando le tazze nelle borse della bicicletta. Come zia tentavo di amare doverosamente i miei nipoti tutti allo stesso modo, ma Peter... ebbene, Peter era Peter. A tredici anni era un prodigio musicale, un birbante e l’orgoglio della mia vita.
“Ha finanche scritto una canzone speciale in onore della giornata”, disse Nollie. “Ecco qui, questa borsa dovrai portarla a mano, fa attenzione”.
Quando fui di ritorno la Beje era più affollata che mai, il vicolo così pieno di biciclette che dovetti lasciare la mia all’angolo. C’era il Sindaco di Haarlem con il suo tight e la catena d’oro dell’orologio. E il postino e il conducente del tram e una mezza dozzina di poliziotti del Comando di Polizia, che era proprio dietro l’angolo.
Dopo la colazione incominciarono ad arrivare i bambini; e come facevano sempre i bambini, andarono direttamente da papà. I più grandi sedevano sul pavimento intorno a lui, i più piccoli gli si arrampicavano in grembo. Perché oltre ai suoi occhi scintillanti e alla sua lunga barba che odorava di buon tabacco, papà faceva tic-tac. Gli orologi stesi su una scansia camminano infatti diversamente da quelli che si portano addosso e così papà portava sempre addosso quelli che stava regolando. Le giacche dei suoi abiti avevano quattro grandissime tasche interne, ciascuna attrezzata con ganci per una dozzina di orologi, cosicché dovunque egli andasse, il ronzio di centinaia di piccole ruote lo seguiva. Ora con un bambino su ogni ginocchio e dieci affollati intorno, da un’altra tasca tirò fuori la sua chiave pesante a forma di croce con ciascuna delle quattro estremità adattata a pendole di diverse misure. Con un giro del dito la fece ruotare, lucida, risplendente...
Betsie si fermò sulla porta con un vassoio pieno di dolci. “Non si accorge di nessun altro nella stanza!”, disse.
Portava una pila di piatti sporchi giù dalle scale quando un piccolo grido da sotto mi disse che era arrivato Pickwick. Noi che gli volevamo bene, dimenticavamo regolarmente quale colpo potesse rappresentare il vederlo per la prima volta. Mi precipitai giù alla porta, lo presentai affrettatamente alla moglie di un grossista di Amsterdam e lo portai al piano di sopra. Sprofondò la sua massa ponderosa in una seggiola vicino a papà, fissò un occhio su di me, l’altro sul soffitto e disse:
“Cinque zuccherini, per piacere”.
Povero Pickwick! Amava i bambini altrettanto quanto mio padre, ma mentre questi si affezionavano a mio padre a prima vista, Pickwick doveva conquistarseli. Tuttavia aveva un trucco che non falliva mai. Gli portai la sua tazza di caffè, densa di zucchero, e lo osservai mentre si guardava intorno con finta costernazione.
“Ma mia cara Cornelia!” esclamò. “Non c’è un tavolino per deporvela!” Sbirciò con uno dei suoi occhi strabici per assicurarsi che i bambini lo guardassero. “E va bene, fortunatamente mi sono portato il mio!” e con ciò depose tazza e piattino sulla propria pancia sporgente. Non avevo mai visto un bambino che potesse resistere a questo gioco; ben presto intorno a lui si era creato un circolo rispettoso.
Un po’ più tardi arrivarono Nollie e la sua famiglia.
“Zia Corrie!” Peter mi salutò con fare innocente. “Non si direbbe che tu abbia cento anni!” E prima che potessi sculacciarlo sedeva al piano della zia Jans e riempiva la vecchia casa di melodie. La gente chiese altri pezzi: canzoni popolari, selezioni dai Corali di Bach, inni, e ben presto tutta la camera si unì in coro.
Quanti di noi lì, in quel felice pomeriggio, ben presto dovevano incontrarsi in circostanze molto diverse. Peter, i poliziotti, il caro brutto Pickwick, eravamo tutti lì ad eccezione di mio fratello Willem e della sua famiglia. Mi domandavo perché fossero tanto in ritardo. Sebbene Willem e sua moglie e i bambini vivessero nella città di Hilversum, a trenta miglia di distanza, avrebbero dovuto essere già arrivati.
Improvvisamente la musica cessò e Peter, dallo sgabello del piano, sibilò attraverso la stanza: “Nonno! Arriva la concorrenza!”
Guardai fuori dalla finestra e vidi entrare nel vicolo il signor Kan e sua moglie, proprietari dell’altro negozio di orologi della strada. Secondo le concezioni di Haarlem erano nuovi arrivati, giacché avevano aperto il loro negozio soltanto nel 1910 ed erano perciò da soli ventisette anni nella Barteljorisstraat. Ma dato che vendevano molti più orologi di noi, considerai il commento di Peter abbastanza preciso.
Papà comunque se ne dispiacque. “Non concorrenti, Peter!” disse con tono di rimprovero. “Colleghi!” e, sbarazzandosi rapidamente dei bambini che stavano sulle sue ginocchia, s’alzò e si affrettò in cima alla scala per salutare i Kan.
Papà trattava le frequenti visite del signor Kan al negozio come visite di un caro amico. “Ma non vedi quello che sta facendo?” gli dicevo dopo che Kan se n’era andato, furiosa. “Cerca di vedere i nostri prezzi in modo da vendere i propri orologi a un po’ meno!” La vetrina del signor Kan presentava sempre, e a cifre ben chiare, prezzi esattamente di cinque guilder inferiori ai nostri. E il volto di papà si illuminava con una specie di compiaciuta sorpresa, come faceva sempre in quelle rare occasioni in cui pensava alla parte affaristica dell’orologeria. “Ma Corrie, la gente risparmierà comprando da lui!” E aggiungeva sempre: “Mi domando come riesce a farlo”.
Papà era ingenuo negli affari come lo era stato suo padre prima di lui. Lavorava per giorni e giorni su un difficile problema di riparazione e poi dimenticava di mandare la fattura. Più raro e più costoso era un orologio, meno era in grado di pensare ad esso in termini economici.
“Si dovrebbe addirittura pagare per il privilegio di lavorare su un simile orologio!” diceva.
Quanto ai criteri di commercio, per i primi ottant’anni della storia del negozio le saracinesche sulle strade si chiudevano ogni sera alle diciotto. Fu soltanto quando iniziai a lavorare, vent’anni prima, che m’accorsi di quanta gente circolasse sugli stretti marciapiedi ogni sera e come gli altri negozi tenessero le vetrine illuminate e aperte. Quando ne parlai a mio padre ne fu lietissimo, come se avessi fatto una grande scoperta.
“E se la gente vede gli orologi potrà venirle voglia di comprarne uno! Corrie, mia cara, come sei intelligente!”
II signor Kan si dirigeva ora verso di me pieno di dolce e di complimenti. Con un complesso di colpa per i pensieri gelosi che nutrivo, approfittai della folla e fuggii al piano di sotto. Il laboratorio e il negozio erano ancora più affollati delle camere superiori. Hans stava passando dolci nel retrobottega e Toos nel negozio, mostrando la cosa più vicina a un sorriso che le sue labbra perpetuamente rivolte in basso permettessero. Quanto a Christoffels si era semplicemente e sorprendentemente espanso: era impossibile riconoscere quell’omino curvo e misero nella galante figura che stava alla porta e accoglieva i nuovi venuti con un saluto cerimonioso, accompagnandoli poi nell’inevitabile visita del negozio. Ovviamente era la più grande giornata della sua vita.
Durante tutto il breve pomeriggio d’inverno la gente che si considerava amica di papà continuò ad arrivare. Giovani e vecchi, poveri e ricchi, signori dall’aspetto di studiosi e donne di servizio analfabete... solo che a lui sembravano tutti uguali! Questo era il suo segreto. Non che trascurasse le differenze nelle persone, ma non gli risultava che ve ne fossero…
E Willem non era ancora arrivato. Salutai alcuni ospiti alla porta e rimasi per un momento a cercarlo con lo sguardo lungo la Barteljorisstraat. Sebbene fossero soltanto le quattro del pomeriggio le luci dei negozi si accendevano e brillavano nella penombra del gennaio. Avevo ancora gran parte dell’ammirazione tipica della sorellina per questo fratello maggiore, cinque anni più vecchio di me, Ministro di Culto e unico ten Boom che fosse mai stato all’Università. Sentivo che Willem vedeva le cose. Sapeva quello che stava succedendo nel mondo.
Spesso, infatti, avrei desiderato che Willem non vedesse tanto bene, perché molto di ciò che vedeva era spaventoso. Dieci anni prima, nel 1927, Willem aveva scritto nella sua tesi per il dottorato, fatta in Germania, che in quel paese si stava radicando un male terribile. Proprio nelle Università, diceva, si seminava una forma di disprezzo per la vita umana quale il mondo non aveva mai visto. I pochi che avevano letto questo suo saggio ne avevano riso.
Ora, naturalmente, la gente non rideva più della Germania. La maggior parte dei buoni orologi venivano da lì, e recentemente parecchie ditte con le quali per anni avevamo lavorato si erano semplicemente e misteriosamente “ritirate dagli affari”. Willem pensava che fosse parte di una mossa voluta, su larga scala, contro gli Ebrei; le industrie chiuse erano infatti tutte ebraiche. Come responsabile del programma della Chiesa Riformata Olandese per raggiungere gli Ebrei, Willem si manteneva al corrente di queste cose.
Il caro Willem, pensai mentre mi ritiravo all’interno e chiudevo la porta, era un buon venditore del pensiero della Chiesa tanto quanto papà era un buon venditore di orologi. Non mi risultava che in vent’anni fosse riuscito a convertire un solo Ebreo; il fatto è che Willem non tentava di modificare la gente, soltanto di servirla. Aveva risparmiato e messo da parte abbastanza denaro per costruire a Hilversum una Casa per Ebrei anziani, o meglio, per gli anziani di tutte le fedi, visto che Willem era contrario a qualsiasi sistema di segregazione. Negli ultimi due mesi però questa casa era stata sottoposta a un diluvio di nuovi giovani arrivi: tutti Ebrei e tutti provenienti dalla Germania. Willem e la sua famiglia avevano abbandonato l’appartamento loro riservato e dormivano in un corridoio. Spaventata e senza patria, la gente continuava ad arrivare e con essa i racconti di una crescente follia.
Salii in cucina dove Nollie aveva appena finito di preparare una nuova brocca di caffè, la presi e tornai su, nelle stanze di zia Jans.
“Ma che cosa vuole?” chiesi a un gruppo di uomini riuniti intorno alla tavola dei dolci, mentre deponevo la caffettiera. “Quest’uomo in Germania, vuole la guerra?” Sapevo che non era un discorso adatto ad una festa, ma in un modo o nell’altro il pensiero di Willem indirizzava sempre la mia mente verso argomenti pesanti.
Intorno alla tavola cadde un freddo velo di silenzio che si diffuse rapidamente in tutta la stanza.
“Che importa?” saltò a dire una voce. “Che le grandi nazioni combattano pure. A noi non toccherà farlo”.
“è così!” disse un venditore di orologi. “I tedeschi ci hanno lasciati tranquilli durante la Grande Guerra. è a loro vantaggio mantenerci neutrali”.
“è facile parlare per voi”, gridò un uomo dal quale compravamo parti di orologi. “Il vostro materiale viene dalla Svizzera. Ma noi? Che cosa farò se la Germania entra in guerra? Una guerra può porre fine a tutti i miei affari!”
In quel momento Willem entrò nella camera. Dietro di lui veniva Tine, sua moglie, con i loro quattro bambini. Ma tutti gli occhi si erano fissati sulla figura al braccio di Willem. Era un Ebreo sui trent’anni, con il tipico cappello nero a larghe tese e la lunga giacca nera. Ciò che attirava ogni sguardo su quest’uomo era il suo volto. Era stato bruciato. Davanti all’orecchio destro pendeva un ciuffo di capelli grigi e ricciuti, come quelli di un uomo molto vecchio. Il resto della sua barba era scomparso e lasciava vedere soltanto una ferita aperta e sanguinosa.
“Questo è Herr Gutlieber”, Willem annunciò in tedesco. “è arrivato a Hilversum giusto questa mattina. Herr Gutlieber, ecco mio padre”.
“è uscito dalla Germania su un camion del latte”, Willem ci disse rapidamente in olandese. “Dei ragazzi di dieci anni lo hanno fermato a un angolo di strada, a Monaco, e gli hanno dato fuoco alla barba”.
Papà, alzatosi dalla sua seggiola, stringeva calorosamente la mano del nuovo venuto. Gli portai una tazza di caffè e un piattino di dolci di Nollie. Quanto fui grata in quel momento dell’insistenza di papà affinché imparassimo, assieme all’olandese, il tedesco e l’inglese.
Herr Gutlieber sedeva rigidamente sul bordo di una seggiola e fissava lo sguardo sulla tazza che aveva in grembo. Accostai una sedia vicino a lui e gli parlai di qualche sciocchezza riguardo il tempo non comune di quel gennaio, e intorno a noi la conversazione ricominciò, un ronzio di discorsi da salotto che saliva e scendeva.
“Teppisti!” sentii che diceva il rappresentante di orologi. “Giovani teppisti! è così in ogni paese. La Polizia finirà per prenderli, vedrete. La Germania è un paese civilizzato”.
E così quel pomeriggio d’inverno del 1937 le ombre scesero su di noi, ma calarono leggermente. Nessuno pensava che quella piccola nuvola sarebbe cresciuta fino a nascondere tutto il cielo, nessuno immaginava che in quelle tenebre ognuno di noi sarebbe stato chiamato a recitare una parte: papà, Betsie, il signor Kan, Willem; persino la buffa vecchia Beje con i suoi piani sfalsati e i suoi antichi angoli.
La sera, dopo che l’ultimo ospite se ne fu andato, salii le scale fino alla mia stanza pensando soltanto al passato. Sul mio letto stava la nuova veste marrone; avevo dimenticato di rimettermela. “Non mi sono mai preoccupata dei vestiti”, pensai. “Anche quando ero giovane...”
Mi ritornarono alla mente, dalle tenebre della notte, scene d’infanzia, stranamente vicine e assillanti. Oggi so che simili ricordi sono la chiave del futuro, non del passato. So che le nostre esperienze, quando permettiamo a Dio di farne uso, diventano la misteriosa e perfetta preparazione per il lavoro che egli ci affiderà. Allora non lo sapevo e, infatti, in una vita così ordinaria e predicibile come la mia, non potevo certo prevedere un qualsiasi nuovo futuro a cui prepararmi. Mentre giacevo nel mio letto, in cima alla casa, sapevo soltanto che certi momenti di un passato lontano si ergevano a fuoco contro la nebbia degli anni. Erano stranamente netti e vicini, come se non fossero ancora finiti, come se avessero ancora qualcosa da dire...