Sample chapter
Narra la Scrittura che quando l’uomo si svegliò da quel sonno profondo e vide la donna, scoprì di poter parlare il linguaggio del- l’eros: sgorgarono parole forti, fino ad allora sconosciute, e Dio si ritrasse, scomparve dalla presenza della prima coppia, sentendosi probabilmente inopportuno.
Soli, in quel giardino, i due scoprirono la capacità divina di creare e inventarono, innanzitutto, l’eros. Si amarono con giocosa passione. Proprio come i due giovani amanti nel giardino del Cantico. Furono parole da capogiro quelle che lui disse per lei: «Questa è carne della mia carne e osso delle mie ossa». Adamo sentì di appartenere a Eva e di questo legame non ebbe paura. Quello che accadeva tra i due annullava il giudizio negativo dato da Dio sulla precedente condizione umana: «Non è bene che l’uomo sia solo...».
Poteva davvero essere una storia d’amore alta e, certo, aveva tutti gli elementi per esserlo; e invece la coppia primordiale sperimentò presto il dolore del ridimensionamento della passione. I due si guardarono e le parole di stupore non fluirono più, anzi, si trasformarono in verdetti di accusa, di rivendicazione: «La donna che tu mi hai messo al fianco mi ha dato dell’albero ed io ne ho mangiato». Parole come macigni, che feriscono e schiacciano. Di chi fu la colpa? Ecco, il mito biblico prova a suggerire che la ragione non è tanto da ricercarsi nella coppia, è piuttosto legata a cause esterne: il serpente insinuò su questa storia di passione il sospetto. Egli ingannò Eva. Sfruttò propri quei doni che la rende- vano così amabile agli occhi dell’altro: la sua curiosità, il desiderio di essere immagine e somiglianza di Dio e infine la generosità, la voglia di condividere con il suo compagno esperienze gustose. La donna divise il frutto con l’amato. Come poteva tenere solo per sé quel dono gustoso? è nella sua indole donare, nutrire, accudire...
I loro occhi si aprirono e presero coscienza della loro nudità, della loro vulnerabilità reciproca. Adamo dette allora il nome alla sua dea, la chiamò Eva, madre di tutti i viventi. La definì attraverso la sua funzione di procreatrice, la rinchiuse in un ruolo. Anche il sesso probabilmente venne finalizzato a quella funzione, perse la sua giocosità, la sua gratuità, la sua forza di linguaggio divino. E così quella compagna tanto cara venne stigmatizzata come colei che ha fatto «cadere» l’umanità nel peccato.
Affrontiamo l’amore con la speranza che sia per sempre. Tuttavia ci brucia quel fallimento ancestrale: esso sembra insinuare il sospetto strisciante che anche le storie d’amore più alte prima o poi precipiteranno, se non per abitudine, per ostacoli esterni.
Perché le cose non sono andate diversamente all’inizio? Perché la prima coppia ha fallito?
Certo, se per fallimento si intende la separazione, questo non è il caso di Adamo ed Eva: i nostri progenitori rimasero probabilmente insieme per tutta la vita. Si sopportarono fino alla fine. Di separazione ci parla, invece, un altro mito sempre legato alla creazione biblica. Secondo una leggenda ebraica, Adamo ebbe prima di Eva un’altra compagna nata come lui dalla terra, Lilith. Questa fuggì via da Adamo perché non voleva essere a lui sottomessa e non bastarono angeli, minacce o mediazioni per convincerla a tornare; e così Dio fu costretto a rimettere le mani in pasta per crea- re la seconda moglie, Eva.
Se Eva e Adamo non si separarono, dovettero però imparare a sopravvivere, ridimensionando le attese reciproche: dovevano abitare fuori dal giardino. E il divino, uscendo da un luogo protetto, dovette imparare a confrontarsi di continuo con l’elemento strisciante della vita.
Perché fallisce un amore? Certo per abitudine, per stanchezza, ma anche perché all’esterno della coppia c’è qualcuno in agguato: il serpente che insinua il sospetto, ma anche il Dio che pone il di- vieto. In fondo qui il divino e il diabolico, proprio come nel caso
11
di Giobbe, sembrano allearsi per far cadere la prima coppia. è come se entrambi dicessero: quello che vivete voi non basta. L’uno, col sospetto, irride di un’esperienza di passione divina, la desacralizza: credete di essere a immagine e somiglianza di Dio perché vi amate? Non lo siete; ma, mangiando il frutto, potreste diventa- re come dèi. L’altro, invece, sembra minare la passione attraverso il divieto: dovete darvi un criterio morale.
L’irridere o il moralizzare un’esperienza di passione divina de- costruiscono il linguaggio amoroso. Come può resistere il passionale quando incontra l’astuzia critica della ragione e quella etica della religione?
Bisogna forse rassegnarsi e aspettare di abitare il giardino escatologico del Cantico per vedere l’eros redento?
A volte tuttavia, per brevi istanti, il miracolo accade anche nel deserto della quotidianità: l’eros trasfigura questa realtà e fa scorrere latte e miele. La terra promessa si scopre allora nel corpo del- l’amato, dell’amata. L’etica e la critica tacciono: risuona solo il canto della passione.