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Nella fattoria
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I RUGGENTI ANNI VENTI E LA GRANDE DEPRESSIONE
DEGLI ANNI TRENTA
Giorno dopo giorno, il contadino alto e sparuto si appoggiava allo steccato e cercava le nuvole in cielo. Davanti a lui c’erano filari di granturco arrestati nella crescita e inariditi per mancanza di pioggia. L’uomo si spostò indietro il cappello, rivelando una striscia bianca al di sopra di un volto abbronzato. Niente pioggia significava niente raccolto. Le spalle gli si incurvarono. Trascinò i piedi su per il sentiero infuocato e polveroso che portava alla casa colonica dalla cui soglia ero rimasto a guardare. Sentii un colpo al cuore mentre gli leggevo la preoccupazione sul volto stanco. Quell’uomo era mio padre.
Quand’ero un ragazzo in crescita, Park Road, nei sobborghi di Charlotte, nel Nord Carolina, era poco più che un viottolo di terra solcata che attraversava ettari di terra coltivata. La nostra bianca casa, con strutture in legno e finiture color verde, era situata ad una certa distanza dalla strada e dominava una distesa di pascoli punteggiati dalle mucche da latte della nostra famiglia, con lo sfondo tranquillo di alberi e collinette. Nacqui lì il 7 novembre 1918, quattro giorni prima dell’armistizio che mise fine alla Prima Guerra Mondiale e un anno meno un giorno dopo la Rivoluzione Bolscevica in Russia.
Questa non era la prima casa costruita sul sito. Una capanna di tronchi su un’area comprata dopo la Guerra Civile nel territorio della contea di Sharon, tra i villaggi di Pineville e Matthews, fu costruita da mio nonno William Crook Graham, un veterano, gran bevitore e bestemmiatore, il cui servizio nel Sesto Corpo Volontari del Sud Carolina gli lasciò un proiettile nordista nella gamba per il resto della vita.
Mia zia Eunice diceva che la misura della religione del padre era quella di essere un uomo onesto. Per fortuna, sua moglie, una scozzese timorata di Dio di nome Maggie McCall, influenzò la formazione del carattere dei suoi tre figli e otto figlie insegnando loro precetti e principi della Bibbia. Crescendo divennero tutti profondamente religiosi, e una quantità dei loro nipoti divennero predicatori, io per primo.
La prima morte tra i nostri parenti più prossimi fu quella della mia nonna materna Lucinda Coffey. La nonna parlava spesso di suo marito, Ben Coffey, che era stato ferito gravemente mentre prestava servizio nell’Undicesimo Reggimento del Nord Carolina, la Brigata di Pettigrew, che guidò l’avanzata su Gettysburg da ovest il 1° luglio 1863. Alcune schegge di granata quasi gli stroncarono la gamba sinistra. Mentre giaceva sul campo di battaglia, un proiettile lo colpì di striscio all’occhio destro accecandoglielo. Qualche tempo dopo, i medici furono costretti ad amputargli la gamba sinistra. Il 1° agosto il comandante della compagnia scrisse una lettera di elogio: “Benny era veramente un bravo ragazzo; non c’è mai stato un soldato migliore”. I suoi camerati testimoniavano della sua preoccupazione per i valori spirituali. Non l’ho mai conosciuto. Morì nel 1916, alla matura età di settantaquattro anni.
Quando morì nonna Coffey, ero alle elementari, e mia sorella Caterina ed io fummo avvisati a scuola. Il modo in cui morì fu un retaggio di fede per la nostra famiglia. Si mise a sedere sul letto e quasi ridendo, disse: “Vedo Gesù. Ha le braccia stese verso di me. Ed ecco Ben! Ha tutti e due gli occhi e tutte e due le gambe”. Fu sepolta tra i molti altri membri della nostra famiglia nel grande cimitero presbiteriano di Steele Creek.
Per un bambino dei ruggenti anni venti che divenne adolescente nella Grande Depressione dei primi anni trenta, la vita rurale offriva probabilmente il mondo migliore. Da presbiteriani scozzesi che credevano nella stretta osservanza dei valori morali, restammo relativamente incontaminati dallo stile di vita alla Great Gatsby dell’era delle ragazze emancipate e anticonformiste, con i suoi balli veloci e il consumo illegale di alcolici. Ed essendo agricoltori, riuscivamo a campare con i prodotti della terra quando l’economia precipitò a picco nel crollo della Borsa del 1929, anche se mio padre perdette i suoi risparmi, 4.000 dollari, nel fallimento della Banca Agricola e Commerciale di Charlotte.
Non che quelli non fossero tempi difficili. Eppure, non ci venne mai di pensare, né a me né ai miei genitori, alle fatiche della fattoria-latteria come a delle avversità. Tutti noi credevamo semplicemente nel lavorare molto. Il realtà il Sud non si era mai completamente ripreso economicamente dalla Guerra Civile e dalla Ricostruzione. è strano rendersi conto ora, alla luce dell’attuale prosperità di Charlotte, che solo sessant’anni fa la regione della mia fanciullezza era incredibilmente povera.
Durante la Grande Depressione, la nostra latteria sopravvisse a stento quando il prezzo del latte scese a 5 centesimi al litro. Dopo il crollo della Borsa del 1929, e la festa nazionale che il Presidente Franklin D. Roosevelt ordinò con la sua Legge sulla Ripresa Industriale della Nazione, mio padre fu vicino al fallimento. Dapprima fu fiducioso che la Banca di Charlotte avrebbe riaperto i battenti, ma non fu così. Non poteva nemmeno scrivere un assegno per pagare i conti. Dovette ricominciare da zero. Ci vollero mesi per riprendersi dal colpo.
Eppure i rovesci finanziari non fecero mai perdere a mio padre il senso dell’umorismo. Anche se aveva motivo di essere triste o depresso, era tutt’altro che depresso. Naturalmente, c’erano momenti di abbattimento quando la pioggia non arrivava e la messe non cresceva, o quando moriva una mucca da concorso. Ma nonostante le difficoltà, trovava molto da ridere. La gente amava venire a casa nostra da tutto intorno il vicinato solo per sentirgli raccontare le sue barzellette. Il suo umorismo pungente ci faceva ridere per ore.
Crescere in quegli anni ci fece capire il valore degli spiccioli. Fin da quando ero piccolo mio padre mi illustrò i meriti della libera impresa. Ogni tanto, quando nasceva un vitellino nella fattoria, lo affidava al mio amico Albert McMakin e a me affinché lo allevassimo. Quando arrivava allo stadio di vitello adulto, lo vendevamo noi stessi al mercato e dividevamo il ricavato.
Non avevamo perso i contatti con quello che succedeva altrove, ma il nostro giornale riportava per lo più storie locali. La radio era ancora agli esordi. Una volta costruita la sua prima radio a galena, mio padre la sintonizzava sulla stazione pionieristica KDKA che trasmetteva da Pittsburgh. Ci radunavamo intorno al ricevitore gracchiante, trattenendo il respiro. Quando, dopo che il babbo aveva armeggiato un bel po’ con le tre manopole di sintonia, si udiva qualcosa di intelligibile tra i disturbi elettrostatici, gridavamo tutti in coro: “Ecco! L’abbiamo presa!”
Più tardi, fummo tra i primi nel nostro vicinato ad avere una radio in automobile. Quando i miei entravano in un negozio a fare acquisti, mi stendevo sul sedile posteriore e ascoltavo quei suoni misteriosi, trasmissioni alterate, diffuse meravigliosamente per radio dall’Europa. Avevano una eco profonda, come se ci giungessero attraverso una conchiglia magica. Io ero particolarmente affascinato dallo stile oratorio dei discorsi strillati con voce quasi ipnotica da un uomo in Germania di nome Adolf Hitler. In un certo senso mi spaventava, anche se non capivo la lingua.
Comunque, c’erano cose più importanti a cui pensare nell’universo della mia fanciullezza in Nord Carolina che era imperniata sui centoventi ettari ereditati dal nonno da mio padre e da suo fratello Clyde, dove dirigevano la Latteria dei Fratelli Graham.
Il fratello più giovane di mio padre e suo zelante socio d’affari, zio Clyde sembrava dipendere da papà per quasi tutte le decisioni attinenti alla fattoria. I primissimi anni della mia vita egli abitò con noi. Amava sempre una buona risata. Una volta fece un’ordinazione ad un commesso viaggiatore di un’intera cassa di lozione tonica che avrebbe dovuto fargli ricrescere i capelli perduti. Rimase solo moderatamente deluso quando si rivelò non all’altezza della promessa.
Sebbene fosse scapolo, per quanto ne sapevamo, non ebbe mai delle amiche. Tuttavia, quando decise di costruire una casa dall’altro lato della strada dalla nostra, mia madre disse scherzando,: “Forse ha intenzione di sposarsi!”
Non avevamo la minima idea! In seconda elementare avevo una insegnante di nome Jennie Patrick. Veniva da un’importante famiglia del Sud Carolina. Non avrei mai sognato che zio Clyde le stesse facendo la corte in segreto! Un giorno, mentre usciva dal passo carrabile, tutto vestito elegantemente, tanto per cambiare, mio padre lo fermò.
“Dove stai andando, Clyde?” domandò il babbo stupito.
“Vado a sposarmi”, balbettò lui arrossendo e sorridendo.
Quello fu l’unico avviso che avemmo e anche l’unica preparazione che ebbe mia madre, che la sposa dello zio Clyde sarebbe arrivata presto.
Zia Jennie si rivelò una cuoca bravissima e, naturalmente, aveva un affetto particolare per me perché ero stato uno dei suoi alunni. Lei e zio Clyde ebbero in seguito due figli che crebbero condividendo le devote convinzioni dei loro genitori. Uno di loro, Eduardo, divenne uno dei migliori pastori che io abbia mai conosciuto, conduttore della più numerosa congregazione presbiteriana della parte occidentale del Nord Carolina. Suo fratello maggiore Clyde lavorò nei grandi magazzini Ivey dove ottenne numerose promozioni nel corso degli anni.
Negli anni del “Selvaggio West”, il maggiore dei fratelli Graham, mio zio Tom, emigrò in Oklahoma dove sposò una donna Cherokee purosangue e prosperò nel negozio delle sgranatrici di cotone. Ogni estate, quando ritornavano nel Nord Carolina per due settimane di vacanza, alla guida dell’automobile più grande che avessi mai visto (fornita di ogni tipo di optional), stavano da noi. Lo zio era alto e tarchiato, e come lui e l’altrettanto florida zia Bellina riuscissero a dormire in quel letto a tre piazze nella camera degli ospiti rimase uno dei misteri irrisolti della mia fanciullezza.
Le nostre stalle avevano il tetto di latta. Nei giorni di pioggia mi piaceva andar via di soppiatto nel fienile e giacere su un mucchio di paglia scivolosa e profumata a sentire le gocce di pioggia cadere su quel tetto di latta e a sognare. Era una specie di santuario che contribuì alla formazione del mio carattere. Ora, ogni qualvolta visito una città brulicante di gente, in qualsiasi parte del mondo, mi piace ritirarmi dai viali rumorosi in una chiesa, semplicemente a meditare al fresco, nella quiete. A casa, nelle montagne del Blue Ridge, il mio posto preferito è un piccolo sentiero sopra la casa dove cammino da solo e parlo con Dio.
Abbiamo sempre avuto un pastore scozzese, almeno uno, e che cosa sarebbe una fattoria senza un branco di gatti? Non essendo pratico, una volta presi un gatto e lo rinchiusi nel canile con il cane. Quando entrarono si odiavano per istinto ancestrale, ma dopo aver trascorso la notte dentro, ne uscirono amici per sempre. Forse è lì che furono piantati i semi di alcune mie convinzioni ecumeniche, volendo aiutare persone in disaccordo tra loro a trovare modi per andare d’accordo.
Quand’ero abbastanza piccolo, tenevo delle capre per compagnia. Mi facevo portare in giro insieme a mia sorella Caterina (che aveva un paio di anni meno di me) nel mio carretto, mentre giocavamo a fare i fattori e fingevamo di aiutare papà a trasportare il fieno. Un certo capro dalle lunghe corna e dal pelo rosso di nome Billy Junior, era uno dei miei preferiti, ma attaccò Caterina parecchie volte. Lei era più tranquilla di noi altri; forse al capro sembrava più vulnerabile.
Siamo stati fortunati ad avere Caterina con noi. Da bambina ingoiò una spilla da balia aperta. L’insolito e complicato procedimento chirurgico che dovette essere eseguito per chiudere la spilla dentro di lei e poi rimuoverla fece notizia in campo medico nella regione in cui vivevamo. Siccome i miei genitori passarono in ospedale un sacco di tempo, dovevo stare a casa di mia zia Lilly, in città. Dovevamo solo aspettare per vedere se Caterina sarebbe sopravvissuta.
Da bambino anch’io ho visto la morte da vicino. Una volta, quand’ero ammalato, mia madre credeva di darmi uno sciroppo per la tosse, ma invece era iodio. Se non fosse stato per una tempestiva telefonata a zia Jennie che suggerì di darmi della panna montata come antidoto allo iodio, sarei potuto morire.
Quando divenni troppo grande per il carretto trainato dal capro, andavo in bicicletta giù per la strada seguito da una processione di capre e cani, ma non dai gatti orgogliosi, con divertimento dei nostri pochi vicini e delle persone che passavano in carrozzino e in automobile. Mio padre teneva una cavalla da equitazione, Mamie, per noi ragazzi. Quando fummo più grandi andavamo a cavallo delle mule, Mag, Emma e Bessie, senza sella, e qualche volta stavamo in piedi sul dorso delle mule più’ mansuete.
Fu un momento felice per me quando, a quasi sei anni, scoprii che i miei genitori mi avevano regalato un fratellino. Quando Melvin divenne abbastanza grande per giocare con me, ci legammo l’uno all’altro per la vita. Traslocammo dalla casa rivestita di assicelle che aveva i tubi dell’acqua all’esterno, in una solida casa di mattoni a due piani, con i tubi dell’acqua interni, che mio padre costruì per 9.000 dollari. Io e Melvin dividevamo la stessa stanza dove non c’era molto oltre ai due lettini e a un cassettone bianco.
Ogni giorno papà e zio Clyde lavoravano sodo da prima dell’alba fino a dopo l’imbrunire, con l’aiuto di diversi braccianti. Io, e più tardi anche Melvin, ci unimmo a loro quando ognuno di noi divenne abbastanza forte da essere più di aiuto che di impaccio. Essendo il più grande, fui avviato ai lavori di routine del fienile e della latteria prima di Melvin. Dapprima, la mia anzianità di sei anni mi permise di dirigere le cose, ma poi la mia crescita da spilungone e lo sviluppo della sua mole pareggiarono il punteggio.
Quando partii da casa per frequentare l’università, Melvin ereditò la mia stanza. Ad un certo punto si mise a fare del culturismo, e quando lasciava cadere i pesi tremava tutta la casa. I miei genitori pensavano che il suo programma di esercizi fosse eccezionale perché stava diventando molto muscoloso. Il che faceva di lui un valido candidato per l’aratura di categoria mondiale, e altri compiti pesanti nella fattoria. Quando gonfiavo i muscoli e invitavo Caterina a sentirmi le braccia, lei riusciva solo a toccare delle piccole protuberanze. Ridacchiava, ma sapevo già di non essere Atlante.
Sia che si trattasse di mucche o cavalli o terreno, papà era un buon venditore di cavalli, come si diceva, anche quando vendeva mucche. Spesso mi portava con sé nei suoi piccoli viaggi, lontano da casa per il normale rituale di negoziare con persone che volevano comprare una delle nostre mucche. In un’avventura del genere, in una fattoria, forse a cinque miglia dalla nostra, mi intromisi mentre mio padre stava elencando all’uomo tutte le buone qualità dell’animale in questione.
“Papà, veramente quella mucca ricalcitra quando la si munge”, gli ricordai. “Ha un bel caratterino”.
Sulla via del ritorno a casa, mio padre mi diede delle istruzioni indimenticabili sul fatto di non interrompere le sue future trattative d’affari!
Le gite di famiglia erano poche e sporadiche, dovute alla mancanza di soldi e di tempo libero. Gli unici lussi che i miei genitori concedevano erano quelli di un’occasionale sabato sera. Ci ammucchiavamo tutti nell’auto e andavamo al vicino negozio di drogheria di campagna, o forse perfino a Charlotte, al negozio di Niven. In quelle stupende occasioni papà ci comprava coni di gelato o bibite analcoliche, mai entrambi. Restavamo seduti in auto con la mamma godendoci quanto ci era stato offerto, mentre lui andava dal barbiere a farsi radere la barba.
Papà e mamma andavano raramente ai “divertimenti”. Circa una volta all’anno si recavano ad un raduno sociale del vicinato in una sala della comunità, ad un miglio di distanza, dove c’era una festa in cui ogni partecipante portava il suo contributo in cibo o bevanda, e tanta musica. La canzone preferita da mio padre era “Il mio cielo azzurro”. In quanto al cinema, andavano a vedere Will Rogers, Marie Dressler e Wallace Beery. E anche noi ragazzi ci andavamo con tutta la famiglia. Questo era ai tempi in cui non c’erano ancora i divieti della censura e c’era una sorprendente quantità di nudo sullo schermo. Una volta il prossimamente di un film mostrò sullo schermo la ripresa mozzafiato di una donna che nuotava nuda. Mia madre mi afferrò la mano ordinandomi: “chiudi gli occhi!” Non ero abbastanza adulto per essere scandalizzato, ma ammetto di essere stato curioso.
Aspettavamo sempre con ansia di trascorrere due o tre giorni all’anno a fare quella che era chiamata una vacanza. Di solito andavamo al mare. Impiegavamo dalle quattro della mattina alle due del pomeriggio per arrivare a Wilmington o a Myrtle Beach in auto. Dopo essere arrivati, mio padre chiedeva in diverse pensioni per vedere qual era la più economica. Solitamente riusciva a trovare vitto e alloggio per circa 1 dollaro al giorno a persona.
A mia madre piaceva andare nei Giardini di Magnolie vicino a Charleston, Sud Carolina. Andavamo a vedere i fiori, passavamo la serata e poi ritornavamo a casa. Per me la parte migliore era che di solito andavamo insieme alla zia Ida e a suo marito, Tom Black e alla loro nidiata di bambini, compresa mia cugina Laura, che era più come una sorella per noi. Abitavano a circa sei chilometri da noi sulla stessa strada e avevano una loro latteria.
Il primo lungo viaggio che ricordo di aver fatto fu a Washington, D.C., a seicento chilometri da casa. Mio cugino Frank Black guidava l’auto, ma non voleva passare molto tempo a fare visite turistiche perché doveva ritornare dalla sua ragazza. Credo che la visita all’intero Istituto Smithsoniano, non il grande complesso che è oggi, durò quaranta minuti. Però ci prendemmo il tempo di salire tutti gli scalini che portano al monumento di Washington.
Un’estate mio padre e zio Tom Black decisero di portarci tutti, due automobili piene, in Oklahoma a visitare zio Tom Graham e zia Bellina e i cugini. Fu un viaggio da brivido. La gran parte delle strade su cui viaggiavamo non erano asfaltate, erano semplicemente ricoperte di ghiaia. Ci vollero due o tre giorni per arrivare in Oklahoma, e durante il tragitto avemmo diversi scoppi di pneumatici. Una notte in Arkansas ci dovemmo fermare lungo un tratto di strada argillosa per riparare una gomma. Eravamo rimasti distanziati dall’altra auto che era guidata da mio cugino Ervin Stafford.
Mentre mio padre riparava il pneumatico, noi bambini aspettavamo nella calma dell’oscurità abbastanza impauriti. Pensavamo di vedere delle strane creature che ci spiavano da dietro gli alberi. Sopraggiunse un’automobile che si fermò.
“Di dove siete?” domandò l’automobilista.
“Nord Carolina”, rispose papà.
“State attenti”, disse lo sconosciuto. “Questa strada attrae ladri e tagliagole. Potreste essere derubati o anche uccisi in questo luogo”.
Mio padre riparò quella foratura a tempo di record! Ma fu comunque un viaggio disagevole per un ragazzo di dodici anni. Papà insisteva a non pagare più di 1 dollaro per l’alloggio. Perfino a quei tempi era a buon prezzo.
Finalmente arrivammo in Oklahoma, il quartier generale della nazione cherokee, la patria di quei pellirosse che erano sopravvissuti alla terribile marcia del “Sentiero delle Lacrime”. Trascorremmo due o tre giorni bellissimi a Tahlequah con mio zio e la sua famiglia.
La varietà delle avventure rendevano quegli anni alcuni tra i più felici, anche se quando fui abbastanza adulto da aiutare nella routine dei compiti quotidiani, il lavoro era veramente duro. Ancora oggi ricordo le ore a lavorare nel giardino di mia madre, a guidare l’aratro e a seguire le zampe posteriori di un mulo per mettere il fertilizzante sul terreno dopo che era stato seminato il seme. In primavera, estate e autunno avevamo molti ettari seminati a mais, grano, segala e orzo, come pure campi di ortaggi. Melvin, la famiglia McMakin ed io lavoravamo tutti in quei campi. Quando la pendola Big Ben suonava la sveglia alle due del mattino, volevo sbatterla a terra e ficcarmi di nuovo sotto le coperte. Ma si sentiva il sordo rumore di pesanti passi nel corridoio silenzioso, fuori della mia stanza di sopra dove mi ero portato a letto una mela e il gatto bianco, mi sembrava solo alcuni minuti prima. Quel rumore mi diceva che mio padre era già alzato e si aspettava che mi affrettassi a scendere giù per la collina a svegliare Pedro, uno dei nostri braccianti. Inoltre, sapevo che non ci sarebbe stata nessuna colazione fino a dopo aver finito la mungitura. Mi alzavo in gran fretta.
Joe McCall, un altro dei nostri operai, era solito chiamare le mucche con il suo caratteristico “Whuui, whuuii, whuuii!” E ognuna si dirigeva istintivamente nella sua stalla, dove le attaccavamo le stanghe intorno al collo e, se era una di quelle irrequiete, le mettevamo le pastoie, catene di controllo, alle zampe posteriori. Mettevo poi il mio sgabello a tre piedi e il secchio del latte a terra sotto la mammella, premevo la testa contro la sua pancia calda e mi mettevo a lavorare con i capezzoli della mammella, cercando di non farmi colpire agli occhi dalla coda che si agitava mentre mungevo.
Ripetevo quel procedimento in venti stalle ogni mattina; e ogni pomeriggio, non appena ritornavo a casa dalla scuola, mungevo di nuovo le stesse mucche. Impiegavo due ore con le mie dita flessibili, una media encomiabile di circa cinque minuti a mucca.
Al che seguiva la rimozione con la pala del nuovo letame ancora tiepido e generalmente il riordino delle cose nella stalla. Io e gli altri braccianti portavamo dentro altro fieno fresco dal fienile attiguo, o il foraggio conservato in uno dei due silos e riempivamo le mangiatoie.
Un rituale da me preferito era quello di portare i bidoni del latte da venti litri nel reparto di lavorazione del latte dove lavorava mio zio Clyde. I primi anni, prima che fossi abbastanza grande per aiutare con il latte, osservavo gli uomini muscolosi sistemare quegli enormi bidoni argentei nelle chiare acque della sorgente per farli raffreddare prima di imbottigliare il latte per la consegna a domicilio in città.
In particolare mi piaceva osservare Reese Brown mentre lavorava. Fu caposquadra nella nostra fattoria per quindici anni, forse il sovrintendente più pagato della Contea di Mecklenburg (da 3 a 4 dollari al giorno), il che spinse altri agricoltori a criticare mio padre. Reese era uno dei migliori amici personali di papà. Un uomo di colore che aveva prestato un encomiabile servizio come sergente nell’Esercito durante la Prima Guerra Mondiale e dotato di grande intelligenza. Fisicamente era uno degli uomini più forti che avessi conosciuto, con una eccezionale capacità di lavorare sodo. Tutti lo rispettavano, ed io credevo che non c’era nulla che Reese non sapesse o non potesse fare. Se facevo qualcosa che pensava fosse sbagliato, non esitava a correggermi. Mi insegnò inoltre a rispettare mio padre ed era per me quasi come un altro zio. Ero solito giocare con i suoi figli e mangiare i deliziosi biscotti di sua moglie, fatti con il siero di latte nell’abitazione del fittuario che era la loro casa.
L’intero procedimento di mungitura terminava intorno alle cinque e mezza, l’ora di mangiare nella calda e invitante stanza della colazione. Mentre lavoravamo nelle stalle, mamma tagliava legna per la stufa, faceva i lavori di casa e cucinava per gli uomini affamati. Ora che aveva l’aiuto di mia sorella Caterina e della domestica, scodellava farinata di granturco con salsa, uova fresche, prosciutto o pancetta e panini caldi fatti in casa, una tradizionale prima colazione in fattoria, con tutto il latte che volevamo per noi che non bevevamo caffè. Susie Nickolson, la donna di colore che collaborava con mamma, era per noi ragazzi come una seconda madre. Era un periodo pieno di attività, ma piacevole.
Dopo tutta la fatica all’aria fresca dell’alba, seguita dall’ottimo cibo di mia madre, ero pronto quasi a tutto, tranne andare a scuola. Con solo tre o quattro ore di sonno alcune notti, spesso mi sentivo stanco in classe. Credo che la stanchezza contribuisse al fatto che i miei voti non fossero eccellenti. Alle elementari avevo conseguito per lo più un profitto di ottimo, ma alla superiore ero ad un livello sufficiente.
Forse per questo fui rimandato in Francese al primo anno della scuola superiore. L’estate seguente, ogni giorno, il mio compagno di classe Winston Covington, che chiamavo Wint, ed io dovevamo recarci con la sua auto a scuola per trascorrere due ore con un professore che ci faceva un corso di recupero in Francese.
A proposito, l’aula ebbe su me un effetto traumatico il mio primo giorno di scuola elementare. Mia madre mi aveva dato il cestino del pranzo dicendomi che avrei dovuto mangiarlo nell’intervallo. Non mi aveva detto però che c’erano due intervalli! Il primo fu alle dieci di mattina e durò solo dieci minuti; quando suonò la campanella di rientro in classe, avevo già finito il pranzo. Il secondo intervallo, più lungo, era l’ora ufficiale del pranzo, ed io non avevo più nulla da mangiare. All’ora dell’uscita, le tre, avevo una gran fame e devo essere uscito di corsa dall’edificio. Al direttore didattico non piacque la mia fretta e mi rimproverò tirandomi l’orecchio.
Fin da piccolo, a casa mia madre mi incoraggiava a leggere. Le imprese di Robin Hood nella foresta di Sherwood mi estasiavano. Lessi tutta la serie di Tom Swift, e dei Ragazzi Rover. Tra le mie letture di avventura preferite c’erano i libri di Tarzan che venivano pubblicati a distanza di pochi mesi. Non vedevo l’ora che uscisse il prossimo, e mamma me li comprava sempre. Nel bosco dietro la nostra casa cercavo di imitare i gesti con le liane e l’urlo caratteristico di Tarzan, con grande divertimento di Caterina. Mamma fece in modo che ci fossero anche delle letture più serie. Prima dei dieci anni, mi aveva fatto imparare a memoria il Piccolo Catechismo Presbiteriano di Westminster. Una volta ero in visita ad una zia che ci ordinò di passare un po’ di tempo a leggere la Bibbia. Dopo circa dieci minuti, ritornai da lei vantandomi: “ho appena letto tutto un libro della Bibbia”. Pensò che fossi un ragazzo in gamba. Avevo scoperto l’Epistola di Giuda, il libro più breve del Nuovo Testamento. Una sola pagina! Mia madre mi stimolava a leggere il Libro del Sapere, una enciclopedia.
Il Dr W.B.Lindsay, il ministro di culto della nostra chiesa, era un uomo amabile e devoto. Però mi ricordava un necroforo perché, per quanto ne sapevo, non raccontò mai una storia ridicola. Trovavo che i suoi sermoni fossero biblici ma noiosi. Tuttavia, condividevo il rispetto che la mia famiglia aveva per lui. Era quello che secondo me doveva essere un santo. Pensiero scoraggiante, visto che mi sentivo tanto lontano dalla santità! In quanto alla moglie del Dott. Lindsay...beh, a lei avrei detto un urra! Si sedeva al primo banco e agitava l’orologio davanti al marito quando era il momento di finire la predica.
Un giorno, però, mentre eravamo al campeggio a seguire uno studio biblico, lanciai una Bibbia nella stanza a qualcuno che non ne aveva. La Signora Lindsay avanzando come una locomotiva, si diresse verso di me e tuonò: “Non farlo mai più! Quel libro è la Parola di Dio”.
Non c’era molto nella chiesa del Dr Lindsay che la rendesse stimolante per me, neanche nel gruppo giovanile. Cantavamo solo Salmi metrici, cioè solo inni presi dal Libro dei Salmi nei servizi di culto del sabato, eravamo troppo rigorosi per dire “Domenica”. Non sempre ritornavamo in chiesa per il culto serale. Era un viaggio di circa sedici chilometri con la nostra Ford Modello A su una strada fatta di due solchi paralleli nel fango. Per rimediare a ciò, a mamma piaceva radunarci intorno a se per ascoltare un racconto biblico la domenica pomeriggio prima della mungitura.
Una spiacevole complicazione riguardo alla scuola superiore fu un cambiamento nel sistema scolastico che richiedette a noi ragazzi di campagna di trasferirci dalla Woodlawn School alla Sharon School, alla periferia della città. I nuovi arrivati guardavamo in cagnesco gli studenti che si trovavano già lì, e loro ci rendevano pan per focaccia. Ci vollero almeno sei mesi per adattarci gli uni agli altri. Il primo anno alla Sharon fui coinvolto in più scazzottate e lotte libere che in tutti gli altri miei giorni di scuola messi assieme. E un paio di volte le presi. Ogni giorno, subito dopo la scuola, ritornavo a casa per la mungitura pomeridiana, indossando i miei vecchi abiti e andando dritto nella stalla. Mio padre aveva almeno due o tre uomini che ci aiutavano, ed io mi mettevo a parlare con loro per sapere tutti gli eventi della giornata e raccontare le mie vicende. Poi, dopo aver fatto i lavori di routine, si giocava a baseball, si facevano i compiti, le attività della chiesa e ci si incontrava con gli amici.
Durante le vacanze estive, non c’era più tempo libero. Oltre alla normale mungitura e altri lavori della fattoria, dovevo aiutare Tom Griffin, l’operaio che faceva le consegne del latte nel suo giro a Charlotte, che era allora una città di più di 50.000 abitanti. Era sempre tanto divertente, e mi intratteneva con storie di incontri incredibili con i suoi clienti. Alcuni dei suoi racconti oggi sarebbero vietati ai minori. Ricordo che consegnavo quattro litri di latte ogni giorno a casa di Randolph Scott che in seguito sarebbe diventato un famoso attore cinematografico. Da adulti, lui ed io abbiamo giocato insieme a golf, ed ho predicato al suo funerale.
La vita nella nostra piccola fattoria-latteria era tutt’altro che un’esistenza protetta. I cicli naturali della nascita e della morte erano cose comuni e inevitabili. Cani, gatti, mucche. Un giorno trovammo una mucca di razza Holstein morta e gonfia sulla riva del Sugar Creek, che scorreva in mezzo alla fattoria. Uno stabilimento tessile scaricava rifiuti tossici verso la sorgente del ruscello, rendendo le sue acque troppo inquinate per nuotare e mortali se bevute. Dovemmo costruire una siepe per tenere lontane le mucche.
Quando moriva una mucca la tiravamo su con i muli e trascinavamo la carcassa in un angolo lontano del pascolo dove la seppellivamo. Il resto della mandria ci seguiva muggendo tristemente come se potesse sentire la perdita. Almeno alla sepoltura delle nostre mucche mancavano tutte le cerimonie floreali che avevo osservato ai funerali a cui avevo assistito.
C’era un cimitero non troppo lontano da dove abitavamo. Un giorno, quand’ero un bambino, mio padre ed io ci passammo vicino mentre andavamo a caccia. Era quasi buio. Dovetti prendere la sua mano e tenermi stretto. Anche quando mi feci più adulto, ero solito rimanere sveglio a letto la notte e chiedermi che cosa mi sarebbe accaduto se fossi morto. Mi turbava pregare: “Se dovessi morire prima di svegliarmi, ti prego Signore di prendere la mia anima”. Servì solo a rafforzare la mia avversione per la possibilità di diventare impresario di pompe funebri.
Guidare le automobili era l’ossessione di ogni ragazzo. Cominciai fin da quando avevo otto anni, allorché Reese Brown mi diede lezioni di guida con il nostro autocarro GMC.
A dieci o dodici anni ero stato promosso alla guida della nostra piccola Ford Modello T. A quel tempo, dalle nostre parti, non ci preoccupavamo di prendere il foglio rosa o anche la patente.
Quand’ero in terza media continuavo a chiedere l’auto a mio padre per andare ad una partita di basketball, o forse ad un appuntamento serale, lanciandomi così in una carriera di automobilista che per poco non terminò bruscamente. Una sera su Park Road mi stavo mettendo in mostra con alcuni miei amici. I miei compagni di scuola più intimi erano Sam Paxton, Wint Covington e Julian Miller. Non so come, ma andai a finire con l’auto nel fango pantanoso. Nel giro di pochi minuti quella poltiglia arrivò fin sopra i parafanghi. Ero caduto in un inghiottitoio. Con grande imbarazzo, mi recai ad una casa vicina per telefonare a mio padre e chiedergli di portare un paio di muli per tirare fuori l’auto. Mi fece capire chiaramente che era molto seccato.
è possibile che abbia avuto delle tendenze a comportarmi incoscientemente per compiacere i compagni quando ero al volante. Sicuramente cercavo di far correre l’auto al massimo, specialmente quando avevo una ragazza al mio fianco. E certamente fu così più di una volta con una certa ragazza alla quale piaceva stare in piedi nella decappottabile di colore giallo canarino, che a volte prendevo in prestito da un nostro parente, e suonare vigorosamente un campanaccio mentre avanzavo scoppiettando allegramente giù per qualche stradella di campagna.
E le ragazze? Mi piaceva particolarmente Jeanne Elliott, la cui mamma preparava il pranzo nel self-service della scuola per i pochi ragazzi che si potevano permettere di mangiare lì. Preparava un punch delizioso di frutta! Ogni tanto uscivo con Jeanne negli anni della scuola superiore, ma eravamo solo amici e non ci davamo appuntamenti in senso formale.
Mi vedevo con diverse ragazze e mi piaceva tenerci per mano e baciarci come tutti gli altri ragazzi, ma non sono mai andato oltre. A volte intrattenevo gli stessi pensieri e desideri degli altri adolescenti della mia età, ma il Signore si servì del grande amore, della fede e della disciplina dei miei genitori, e anche del loro insegnamento ed esempio, per mantenermi sulla via stretta e diritta. Veramente non mi sembrò mai giusto avere un rapporto sessuale con nessuna, tranne che con la donna che avrei sposato.
Una volta, all’ultimo anno della scuola superiore Sharon e io stavamo facendo le prove serali di una commedia. Una delle ragazze del cast mi persuase con moine ad appartarmi con lei in un’aula buia. Aveva la reputazione di “farsela” con i ragazzi. Prima che mi rendessi conto di che cosa stesse succedendo, lei mi implorò affinché facessi l’amore con lei.
I miei ormoni erano attivi come quelli di qualsiasi altro giovane sano, e avevo fantasticato abbastanza spesso su un momento simile. Ma quando arrivò, invocai Dio in silenzio che mi desse la forza e mi precipitai fuori di quell’aula nel modo in cui Giuseppe scappò via dalla camera da letto della moglie di Potifar nell’antico Egitto.
Il mio controllo sessuale non poteva essere attribuito all’ignoranza dei fatti della vita. Naturalmente, tutti noi ragazzi parlavamo di quegli argomenti interessanti su cui i nostri genitori tacevano. Avevo un altro insegnante in Pedro, che era un personaggio abbastanza rozzo, anche se in realtà era di buon cuore. Egli mi confidava tutte le sue esperienze erotiche con le donne, probabilmente abbellite apposta per me.
Fu Pedro che provò ad insegnarmi a masticare tabacco. Il giorno in cui mio padre mi sorprese con una cicca in bocca fu l’ultimo giorno in cui Pedro lavorò con noi! Ed io ebbi una bella strigliata per non dimenticare. La mia esperienza con le sigarette fu fatta abortire similmente da papà. Lui fumava solo il proverbiale “buon sigaro da 5 centesimi”.
Quando si trattava di alcol, però, era assolutamente astemio. Saltò fuori con un modo insolito per dare a me e a Caterina la cura prima ancora di avere la possibilità di prendere l’abitudine. All’abrogazione dell’Emendamento sulla Proibizione di bere alcolici, papà portò a casa della birra e ci chiamò in cucina. Diede a ciascuno di noi una bottiglia a ci ordinò di berla tutta. Avevo circa quindici anni, credo, e pensai che nella sua pazzia doveva esserci un metodo. All’istante entrambi odiammo il gusto della fermentazione e manifestammo il nostro disgusto in modo inequivocabile.
“Da ora in poi”, disse papà, “quando un vostro amico cerca di farvi bere dell’alcol, ditegli che l’avete già provato e non vi piace. Questo è il solo motivo che gli dovete fornire”.
Il suo approccio era più pragmatico che religioso, ma funzionò. E mi aiutò a tenermi in forma per il mio passatempo preferito, baseball. Entrai in una squadra solo come sostituto, giocando qualche volta quando qualcuno era ammalato. Dimostrai di essere un giocatore abbastanza bravo a causa della mia lunga presa. Però non ero un buon battitore. Colpivo la palla dal lato sinistro del piatto, in un certo qual modo con la sinistra, allo stesso modo in cui più tardi avrei giocato a golf.
Non sapevo se il fatto che mio padre fosse presidente del locale consiglio d’istituto, sebbene avesse frequentato solo fino alla terza elementare, avesse a che fare con la decisione dell’allenatore Eudy di mettermi in prima base. Preferivo immaginare che fosse stata determinata solo dai miei meriti atletici. Forse, ad un certo punto, ho perfino sognato di seguire una carriera sportiva, ma ovviamente mancava il talento per il baseball. Però, una volta riuscii ad apparire nel Charlotte Observer. Giocando a palla canestro per la Scuola Superiore Sharon, feci una partita come supplente e fu così che il mio nome apparve nella colonna sportiva.
Il gioco principale a cui giocavo a casa, oltre a gettare ferri di cavallo ogni tanto con mio padre all’ombra di una grande quercia, era lanciare la palla all’ora di pranzo e a sera dopo i lavori di routine con i robusti ragazzi della famiglia McMakin-Alberto, Wilson e specialmente Bill. Anche se Bill aveva un paio di anni più di me divenne il mio più caro amico nella fattoria. Insieme andavamo a pesca e molte volte a caccia.
La famiglia McMakin ebbe una notevole influenza sulla mia vita in quanto a moralità e duro lavoro. Capelli rossi e un modo di parlare spedito, il Signor McMakin produceva i più bei pomodori della contea, e anche altri tipi di ortaggi, che vendeva ai mercati di Charlotte. Lavoravo per lui tanto quanto per mio padre e mi piaceva farlo. Un’estate Alberto mi aiutò a crescere tredici piante di quei pomodori da concorso, aspettandosi di guadagnarne il ricavato.
Ironicamente, allora non mi accorgevo molto di un giocatore professionista di baseball che era diventato predicatore e a quel tempo era al culmine del suo ministero evangelistico. Si chiamava Billy Sunday. Papà mi portò a sentirlo a Charlotte quando avevo cinque anni. Rimasi colpito dall’enorme folla e debitamente soggiogato dall’ammonimento di mio padre di stare zitto durante il servizio per paura che il predicatore chiamasse il mio nome e mi facesse arrestare da un poliziotto!
Intorno al 1930 feci il mio primo discorso. Rappresentai lo zio Sam in una recita alla scuola Woodlawn, con una lunga barba e il frac. Mia madre aveva i nervi a pezzi dopo avermi insegnato il discorso e ascoltato mentre lo ripetevo fino ad impararlo perfettamente. Mi tremavano le ginocchia, avevo le mani sudate e giurai a me stesso che non sarei mai stato un oratore! Ma la Signora Boylston, la preside di Woodlawn, disse a mamma che ne avevo il dono.
Mia sorella Jean, l’ultima nata in famiglia, nacque il 1932. Era ancora una bambina quando partii per il college, ma ricordo che era una creatura bellissima. Ricordo chiaramente il senso di allarme che ci attanagliò il cuore quando contrasse la polio, più o meno il periodo che Ruth ed io ci sposammo, e il senso di gratitudine a Dio quando guarì.
Mio padre e mia madre erano persone con una forte volontà. Dovevano esserlo, altrimenti non avrebbero potuto sopportare le difficoltà e i rovesci dell’agricoltura negli anni venti e trenta. Essi accettarono privazioni e disciplina nella loro vita, e non esitarono mai a impartire correzione corporale ai figli quand’era necessario. A volte le prendevo per aver fatto dispetti a Caterina o per aver messo Melvin nei pasticci con l’inganno, ma di solito era per le mie malefatte.
In tutta la severità della mia educazione non c’era la minima traccia di maltrattamento minorile. Mentre i miei genitori erano pronti a punirmi quando la punizione era meritata, non mi imponevano delle regole arbitrarie impossibili da rispettare. Infatti, erano molto aperti. Nemmeno una volta i miei genitori mi hanno detto di rientrare ad una certa ora quando uscivo il venerdì o il sabato sera per un appuntamento. Sapevo che dovevo alzarmi alle tre del mattino e se restavo fuori oltre la mezzanotte avrei avuto solo un paio d’ore di sonno.
Imparai a ubbidire senza fare questioni. La menzogna, la frode, il furto e la distruzione della proprietà privata mi erano sconosciuti. Mi si insegnò che l’ozio era uno dei mali peggiori, e che vi era dignità e onore nel lavoro. Mi abbandonavo con entusiasmo alla mungitura delle mucche, alla pulizia delle latrine e alla rimozione del letame, certamente non perché erano dei lavori piacevoli, ma perché c’era soddisfazione nel lavoro che procura il sudore della fronte.
Di tanto in tanto, ci devono essere state delle tensioni tra papà e mamma che a noi ragazzi non era permesso di vedere. Immagino che ogni tanto i miei genitori si deludevano a vicenda e, certamente, qualche volta non erano d’accordo su cose serie come pure su cose triviali. Ma in qualsiasi loro lite fossi presente, non ho mai sentito nessuno di loro proferire una sola parola blasfema. Mio padre e mia madre, per lo più mia madre, potevano farsi delle scenate ogni tanto se provocati, ma superavano ogni tempesta e continuavano ad andare avanti, insieme.
Quando leggevano la Bibbia di famiglia, non compivano semplicemente un rituale pio. Mamma ci diceva che avevano stabilito un altare di famiglia con la lettura quotidiana della Bibbia il primo giorno del loro matrimonio. Accettavano quel libro come vera Parola di Dio, cercando e ottenendo aiuto divino per tenere unita la famiglia.
Ogni volta che mia madre pregava con uno di noi, e ogni volta che i miei genitori pregavano per i loro figli, essi dichiaravano la loro dipendenza da Dio per ricevere saggezza, forza e coraggio onde rimanere in controllo della vita, non importa che cosa avrebbero portato le circostanze. Oltre a ciò, pregavano per i loro figli affinché potessero entrare nel regno di Dio.