Sample chapter
1
Ricominciare da capo
Questo libro è il primo di una serie di lavori volti ad analizzare i rapporti tra le scienze naturali e le religioni da diversi punti di vista: storico, filosofico, scientifico e teologico. Tenendo conto della vasta portata di tale progetto, questo capitolo cercherà di presentare e di spiegare la funzione specifica di questo primo volume della serie.
1.1 Scienza e religione: affrontarsi o dialogare?
Il rapporto tra la religione e le scienze naturali è uno degli argomenti più affascinanti, controversi e potenzialmente stimolanti che si possano studiare. è vero che certi autori hanno definito la “scienza naturale” in termini fortemente antireligiosi, per poi passare a dimostrare che le scienze naturali si contrappongono alla religione. Con ciò, non vogliamo indebitamente denigrare i successi dell’intelletto. Occorre tuttavia notare, in primo luogo, che definire a priori la scienza in quei termini pregiudica la conclusione, e che, in secondo luogo, tale definizione travalica largamente la comune affermazione attuale del che cosa costituisca una “scienza” o un metodo “scientifico” di vedere le cose.
Una “scienza” può essere ragionevolmente definita come “qualsiasi ambito di studio sistematico o insieme di conoscenze che tenda, mediante l’osservazione, la sperimentazione e la deduzione, a produrre un’attendibile spiegazione di funzioni attinenti al mondo materiale o fisico” (LAFFERTY e ROWE 1993) ovvero “l’osservazione sistematica di eventi e condizioni naturali, allo scopo di scoprire dei dati che li riguardano e di formulare leggi e principi basati su quei dati” (MORRIS 1992). In linea generale, le scienze naturali sono neutrali nei confronti della religione, non esigendo l’accettazione o il rifiuto di qualsiasi credenza religiosa né a priori, né a posteriori1.
La maggior parte degli scienziati presuppone che qualsiasi considerazione sull’influenza o sulla partecipazione di Dio all’ordine naturale sia del tutto irrilevante al fine specifico di cercare una spiegazione oggettiva dei modelli che vi si riscontrano. Ciò può essere più correttamente considerato come un presupposto operativo riguardante l’ambito specifico delle scienze naturali, piuttosto che come un convincimento profondo sulla natura e sull’attività di Dio.
Senza dubbio, l’interazione tra religione e scienze naturali è diventata uno dei campi più significativi della ricerca intellettuale degli ultimi anni. La fioritura di studi eruditi sulla storia sociale e intellettuale del Medioevo e del Rinascimento, il rinnovato interesse per la storia e la filosofia delle scienze naturali e la crescente consapevolezza dei difetti e degli stereotipi tradizionali inerenti ai dibattiti su “scienza e religione” hanno eroso quelle che un tempo parevano salde barriere tra discipline e hanno aperto nuove possibilità di dialogo. Non a caso, negli ultimi anni è stata pubblicata una piccola valanga di opere dedicate all’esame del profilo che possono assumere i dialoghi, attuali o potenziali, tra le due discipline (si veda, per esempio, O’HEAR 1984; SCHOEN 1985a; CLAYTON 1989; HUYSSTEEN 1989; BANNER 1990; MURPHY 1990; RICHARDSON E WILDMAN 1996); opere che spesso si concentravano sulla personalità di scienziati e di teologi particolarmente importanti per quel dialogo (si veda, per esempio, AVIS 1990; POLKINGHORNE 1996; WORTHING 1996).
Un altro fenomeno molto importante è stato l’abbandono generale di quelle che potremmo chiamare le modalità “liberali” o “attualiste” in storiografia: di quegli atteggiamenti, cioè, che cercano di rintracciare nel passato il sorgere delle attuali forme di comprensione dei problemi (di cui si presuppone la correttezza). Il passato viene dunque interpretato (e giudicato) dal punto di vista del presente, lodando in pratica coloro che con lungimiranza avevano visto giusto, e scartando quelli che avevano sviluppato ipotesi o linee di ricerca rivelatesi errate. Ormai è largamente accettata l’idea secondo cui lo storico della scienza deve sforzarsi di capire ciò che gli scienziati del passato pensavano e facevano nel loro contesto storico (KRAGH 1987). Ci vuole spesso una grande capacità di immedesimarsi negli uomini del passato se si vuol capire che cosa risultasse loro plausibile, specialmente se lo si confronta con la visione attuale dei fatti. Tale facoltà è tuttavia indispensabile, se non altro perché permette di capire in qualche misura il modo in cui la plausibilità delle concezioni scientifiche (passate o presenti) viene pesantemente condizionata dai presupposti sociali ed economici che di volta in volta prevalgono2.
La presa di coscienza di tale realtà ha contribuito non poco a riabilitare le credenze religiose quali elementi significativi per lo sviluppo storico e attuale delle scienze naturali. è un puro dato di fatto che le credenze religiose hanno avuto e hanno tuttora un’influenza sul pensiero scientifico, indipendentemente dal fatto che la si giudichi corretta o meno. La comprensione dei ruoli specifici che le religioni hanno esercitato e tuttora esercitano sulle scienze naturali (per esempio nell’influenzare o nel determinare le strutture di plausibilità) è pertanto estremamente interessante e importante.
Non c’è quindi motivo di scusarsi se si aggiunge ancora un volume alla crescente letteratura in tema di scienza e religione. Un ulteriore esame del rapporto reciproco tra le due discipline non è soltanto intellettualmente stimolante, ma è pure molto importante per il futuro della civiltà umana. La storia di quel rapporto ha subìto una degenerazione perché nel presentarla si è fatto uso prevalentemente di metafore militaristiche e imperialistiche (specialmente quella del conflitto), unitamente a una generale e reciproca mancanza di conoscenza e di rispetto. Il decennio degli anni Sessanta ha promosso l’idea, largamente avanzata e sostenuta da certe scuole di sociologia, secondo cui la religione era in costante declino, mentre un mondo perfettamente secolarizzato si sarebbe affermato in un futuro molto prossimo (BRUCE 1992).
Tale idea, in quegli anni, sembrava perfettamente credibile. Nel 1965, per qualche settimana, la teologia ebbe un posto nelle prime pagine dei giornali statunitensi, dopo che la rivista Time ebbe pubblicato una prima di copertina in cui si dichiarava che Dio è morto. Slogan come “Dio è morto” o “la morte di Dio” suscitarono l’interesse di tutto il paese. La rivista Christian Century, nella sua edizione del 16 febbraio 1966, offriva ai lettori un satirico formulario di adesione al “Club Dio è Morto”. Cominciarono a circolare in dotte riviste (forse più negli Stati Uniti che non in Italia, N.d.T.) delle parole nuove come “teotanasia” o “teotanatologia”, mentre “teotanatopsi” ronzava in molte teste, prima di cadere felicemente nel dimenticatoio.
Un altro indice della pressoché totale inutilità di un qualsiasi dialogo serio tra scienza e religione veniva dall’idea molto generalizzata secondo cui, man mano che le credenze e le pratiche della visione “scientifica” del mondo si generalizzavano nella cultura occidentale, il numero degli scienziati praticanti una qualsiasi religione si sarebbe ridotto fino a diventare insignificante. Un tale presupposto era basato su di un’inchiesta, condotta nel 1916, sulle concezioni religiose degli scienziati, che evidenziava come il 40% degli uomini di scienza aderisse a una qualche forma di religiosità personale (LEUBA 1916). A quell’epoca tale risultato venne interpretato come una formidabile conferma dell’idea che una parte importante di un paese, noto per la sua religiosità, tendeva all’incredulità3. L’inchiesta venne ripetuta nel 1966 e dimostrò che non c’era stato nessun calo significativo nella frazione degli scienziati che conservavano quelle credenze (LARSON e WITHAM 1997), mettendo così seriamente in questione la convinzione popolare secondo cui la fede religiosa continua a declinare tra gli scienziati. Se il 40% di coloro che operano attivamente nelle scienze naturali ha serie credenze religiose, ciò vuol dire che i rapporti tra le scienze e la religione rimangono tuttora una questione rilevante.
Alla luce di quell’assoluta convinzione – tipica degli inizi del XIX secolo – di un’imminente scomparsa della religione dalla cultura occidentale, pareva che un dialogo tra scienza e religione sarebbe stato del tutto infruttuoso. Che senso ci sarebbe, infatti, a esplorare una frontiera destinata ben presto a sparire? Viceversa, quel dialogo è stato reso imperativamente necessario dalla rinascita della religione su scala mondiale. Per esempio il cristianesimo, l’islam e il giudaismo hanno sperimentato ondate di rinnovamento, in forme spesso decisamente militanti (KEPEL 1991). Perpetuare la semplicistica metafora di una “guerra tra scienza e religione” è non soltanto una posizione discutibile dal punto di vista storico e intellettuale (si veda l’abbondante materiale raccolto da LINDBERG e NUMBERS 1984; NUMBERS 1985), ma potrebbe essere considerato come un incoraggiamento indiretto a estendere quella “guerra” dall’ambito delle pure idee alla realtà in carne e ossa. In questa nuova situazione culturale è della massima importanza che il dialogo tra scienza e religione avvenga sulla base del rispetto reciproco, condito con un’abbondante dose di umiltà da parte di entrambi. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a una leggera ma indubbia modifica di atteggiamenti secondo le linee suddette, che si evidenzia in importanti opere di scienziati, come On Dialogue (Sul dialogo) di David Bohm (Bohm 1996), e che questo nostro libro intende incoraggiare oltre che farvi riferimento.
Ma prima di esporre il particolare approccio di questo libro al problema, è opportuno spiegare quale ne è stata l’origine.
1.2 Genesi di un progetto
Il progetto, di cui questo scritto costituisce la prima parte, cominciò a prendere forma una ventina d’anni fa. Il contesto dal quale è emerso questo libro ne ha largamente determinato la struttura e il modo di affrontare i problemi, perciò mi è parso utile cominciare col dire in che modo è venuto alla luce. Sono sempre stato affascinato dal mondo della natura; quando avevo circa dieci anni mi costruii un piccolo telescopio per poter cominciare a esplorare il cielo. Un vecchio microscopio, che era appartenuto a un prozio patologo al Royal Victoria Hospital mi permise, più o meno in quegli anni, di cominciare a studiare seriamente la biologia.
All’età di tredici anni, cioè appena certe scelte sono possibili nel sistema scolastico britannico, decisi di specializzarmi in matematica e scienze naturali. A quindici anni limitai ulteriormente la sfera dei miei interessi alla matematica, alla chimica e alla fisica. Nel 1970, diciassettenne, vinsi una cospicua borsa di studio all’Università di Oxford per studiarvi la chimica. A quel tempo la religione non mi interessava affatto e tendevo a pensare che cristianesimo e scienze naturali fossero incompatibili… in base alle irremovibili certezze sulla vita condivise largamente dai ragazzi.
Il mio atteggiamento verso il cristianesimo cambiò nettamente durante il primo semestre a Oxford, nel 1971, quando cominciai a rendermi conto che esso possiede un’attrattiva, un’onestà intellettuale e una capacità di ripresa molto maggiori di quanto non avessi immaginato. Perciò il rapporto tra la teologia cristiana e le scienze naturali divenne per me di un certo interesse e dedicai gran parte del mio tempo libero a dilettarmi di teologia cristiana, mentre proseguivo i miei studi scientifici. A quel tempo la Final Honour School in Natural Philosophy (chimica) dell’Università di Oxford prevedeva un quadriennio: l’ultimo anno era dedicato a un progetto di ricerca, mentre i primi tre si concentravano sulle tre branche principali della chimica: organica, inorganica e fisica, e permettevano un certo grado di specializzazione mediante lo studio di “materie particolari”. Scelsi di specializzarmi nel campo della teoria dei quanti durante la prima parte del corso, quindi, per il progetto di ricerca dell’ultimo anno, passai al campo della biochimica e della biofisica.
Dopo essermi laureato con tutti gli onori nel 1975 mi dedicai a una ricerca presso il Dipartimento di Biochimica di Oxford in vista di un dottorato, concentrandomi su certi aspetti della biofisica molecolare, con particolare riguardo alle proprietà biofisiche delle membrane biologiche e ai loro modelli. Uno dei punti principali concerneva il modo in cui dei modelli artificiali di complesse membrane biologiche potessero essere progettati, convalidati e utilizzati. Mi venne concessa la borsa E.P.A. Cephalosporin per permettermi di portare avanti quel lavoro, sulla base di un progetto di ricerca che avevo preparato durante l’ultimo anno da laureando. Il mio lavoro prese per lo più la forma di una concreta ricerca empirica, tuttavia trovai pure il tempo per lavorare sistematicamente su diversi aspetti della storia e della filosofia delle scienze naturali. In base a questo lavoro ottenni un posto di ricercatore dall’Organizzazione Europea di Biologia Molecolare per lavorare per alcuni mesi all’Università di Utrecht, in Olanda; in seguito ebbi pure una borsa di studi superiori al Merton College di Oxford.
Il tempo trascorso ad Utrecht ebbe per me un effetto formativo. Da una parte lavoravo su alcuni aspetti del trasporto della fosfatidilcolina nelle membrane, e sui relativi modelli, ma avevo d’altra parte abbastanza tempo per riflettere su questioni più filosofiche e teologiche, che venivano sollevate dalla biofisica molecolare nel suo insieme. Tornai in Inghilterra alla fine del 1976, convinto che avrei dovuto studiare molto seriamente la teologia se volevo riflettere su problemi di tale natura con sufficiente approfondimento e correttezza. Ma come? E chi me l’avrebbe insegnata? La risposta, come a volte succede, era a portata di mano, e precisamente nelle parti stampate in piccoli caratteri tra le condizioni della borsa al Merton College, che io accettai il 1° settembre 1976.
Quella borsa era singolare, in quanto permetteva al beneficiario di proseguire in ricerche avanzate, oppure di dedicarsi a un altro corso di laurea. Per quattro o cinque anni mi ero occupato di teologia in modo alquanto dilettantesco, perciò decisi che era giunto il momento di affrontare l’argomento con tutta la serietà che merita. Chiesi dunque l’autorizzazione a continuare le mie ricerche sulla biologia molecolare e a intraprendere allo stesso tempo lo studio formale della teologia a Oxford. La mia richiesta suscitò sorpresa e costernazione tra i membri della direzione del College, tuttavia mi concessero il permesso di cui avevo bisogno. Perciò, a partire dall’ottobre del 1976, passai una parte del tempo al Dipartimento di Biochimica dell’Università di Oxford e il resto delle mie giornate lo usai per cercare di impadronirmi degli elementi fondamentali della teologia cristiana. Trassi un grande vantaggio dal sistema in vigore ad Oxford, di piccoli gruppi di studenti affidati a un insegnante, che mi permise di studiare teologia al cospetto di alcuni dei migliori specialisti. In quegli anni il programma di studi teologici a Oxford consentiva di specializzarsi nel campo dei rapporti tra la teologia e le scienze naturali, il che mi permise di investigare in profondità per lo meno alcune delle questioni che più mi interessavano. Sapendo quale sia stata l’importanza del tardo Medioevo nello sviluppo delle scienze naturali, decisi di specializzarmi in teologia scolastica, con particolare riferimento a Duns Scoto e a Guglielmo d’Occam. Fu probabilmente il periodo più vivace e stimolante della mia vita intellettuale.
Nel dicembre del 1977 ottenni il dottorato in biologia molecolare in base a tre lavori che avevo pubblicato su tale argomento, compreso quello che fu ritenuto il primo uso dell’antimateria4 per studiare gli aspetti fisici di sistemi biologici (MCGRATH, MORGAN e RADDA 1976; DE KREEF e altri 1977). Nel giugno del 1978 affrontai gli esami di teologia ottenendo il massimo dei voti, come pure il premio Denyer e Johnson per il miglior risultato degli esami di quell’anno. Ne risultò un invito a pranzo da parte di un dirigente della Oxford University Press, che mi chiese di pensare a scrivere un libro sul tema “cristianesimo e scienze naturali” che rispondesse a un recente libro della stessa casa editrice, scritto da un promettente giovane zoologo oxfordiano: Selfish Gene, di Richard Dawkins. Declinai l’offerta, ritenendo che mi mancasse ancora la necessaria competenza teologica; ma l’idea non mi ha più abbandonato e può essere considerata in fin dei conti come il punto di partenza di questo progetto.
In base al lavoro che avevo svolto a Oxford mi venne assegnata la borsa Naden per lo studio della teologia al St. John’s College di Cambridge. Quella borsa, fondata nel XVIII secolo, aveva lo scopo di favorire delle ricerche teologiche originali. La mia prima intenzione era stata quella di tuffarmi immediatamente in un’analisi dettagliata dei rapporti tra scienze naturali e teologia cristiana, con particolare riguardo ai dibattiti del XVI secolo. Tuttavia, mi fu suggerito di acquisire una perfetta familiarità con tutti gli aspetti della teologia storica e sistematica prima di perseguire quel progetto. Era un compito gigantesco, che avrebbe richiesto degli anni, e ricordo tuttora la delusione con cui ricevetti quel consiglio e la riluttanza con cui poi lo seguii. Ma era indubbiamente corretto. Occorreva che venissi preso sul serio come teologo prima di poter dare un contributo significativo in quel campo immensamente complesso.
La mia prima intenzione era stata quella di cominciare a lavorare a Cambridge nel settembre del 1978 sul dibattito copernicano del XVI secolo. Il professor E. Gordon Rupp, da poco ritiratosi dalla cattedra di storia ecclesiastica all’Università di Cambridge, aveva accettato di sovrintendere al mio progetto. All’epoca egli era uno dei maggiori esperti in Inghilterra sul pensiero di Martin Lutero (1483-1546), il principale riformatore e teologo tedesco. Era forse inevitabile che mi distogliessi da Copernico per orientarmi su Lutero. Uno dei temi principali del pensiero del Riformatore è la dottrina della giustificazione, e io ben presto mi trovai immerso nelle complicate e sottili variazioni del pensiero di Lutero al riguardo, tra il 1509 e il 1519 (MCGRATH 1985). Questo portò, in seguito, a una più ampia indagine sullo sviluppo di questa particolare dottrina nel corso di tutta la storia del cristianesimo (MCGRATH 1986a), e a un particolare interesse per la storia intellettuale del Medioevo e del Rinascimento.
Dopo aver lavorato alcuni anni (1980-83) in una parrocchia della città di Nottingham, tornai all’insegnamento presso la Wycliffe Hall di Oxford. Ciò mi ha permesso di impegnarmi su temi particolari di teologia storica e sistematica, ivi compreso un’ulteriore studio della storia intellettuale del XVI secolo (MCGRATH 1987), nonché l’approfondimento di vari aspetti della teologia di lingua tedesca a partire dall’Illuminismo (MCGRATH 1986b). L’invito a tenere una serie di conferenze (Bampton Lectures) a Oxford nel 1990 mi ha permesso di cominciare a esplorare le origini e le funzioni della dottrina cristiana (MCGRATH 1990). Oltre a una serie di articoli su diversi aspetti della teologia cristiana in rapporto con moderne forme di pensiero, ho pubblicato parecchie introduzioni approfondite alla teologia cristiana, che sono largamente utilizzate in seminari, istituti e università (MCGRATH 1993a, MCGRATH 1995a; MCGRATH 1996).
Durante tutto quest’ultimo ventennio ho continuato a occuparmi del tema generale “scienza e religione”, cercando di chiarire a me stesso la natura dei temi e delle questioni principali. Verso la metà del 1996 pensai di essere finalmente in grado di tornare al progetto di libro che avevo rinviato con riluttanza vent’anni prima. L’invito a tenere una lezione all’Università di Utrecht nel gennaio del 1997 su “Il rapporto tra scienze naturali e teologia cristiana” mi ha fornito lo stimolo per raccogliere il materiale, le idee e le risorse che ora appaiono in questo libro.
1.3 Ricominciare da capo
Questo progetto è stato intrapreso in parte a motivo della mia crescente convinzione della necessità di ricominciare da capo. Quella che un tempo pareva poter essere una discussione straordinariamente interessante e creativa sembra sia degenerata in poco più che una rissa verbale tra un gruppo di scienziati inclini a eliminare la religione dalla vita culturale e accademica e un gruppo di individui religiosi che sembrano non conoscere e non curarsi affatto delle scienze naturali. Ciò che il Rinascimento prospettava come un dialogo è degenerato in una manifestazione spesso deprimente di ignoranza, di ostilità e di rancore reciproci. Il dibattito tende a conquistare punti per la propria parte, non a favorire la comprensione. Non ha nessun senso lasciarsi coinvolgere in simili dibattiti le cui conclusioni sembrano predeterminate dagli interessi personali anziché dall’amore per il sapere e da un profondo senso di umiltà, di consapevolezza dei propri limiti e soprattutto dalla preoccupazione di favorire la comprensione e l’arricchimento reciproci. Il presente libro è stato scritto precisamente con questo spirito, che può sembrare irrimediabilmente fuori posto nel clima di polarizzazione che certuni sono riusciti a creare. Tuttavia sono fortemente convinto che il dialogo, che questo libro vuol fare progredire, sia talmente importante che sono più che felice di averlo scritto anche se qualcuno mi riterrà sciocco o ingenuo.
Sotto un certo profilo il dialogo tra religione e scienza è dominato dalle lunghe ombre di un passato complesso e ambivalente. La menzione stessa del binomio “scienza e fede” evoca ricordi pesanti e immagini conflittuali che influenzano gli atteggiamenti prima ancora che la discussione abbia inizio. Gli studi moderni hanno dimostrato che ciò che getta sul presente una così pesante influenza negativa è la nostra percezione del passato, più che il passato stesso. è inevitabile che certi stereotipi antichi si perpetuino attraverso le semplificazioni prodotte da individui o da scuole di pensiero che hanno dei programmi ben definiti; per coloro che si impegnano al dialogo in questo campo dall’importanza critica, uno dei compiti più urgenti consiste forse nell’esorcizzare il passato eliminando gli interessi precostituiti di certi gruppi, per rendere possibile un qualche progresso reale. Si potrebbero indicare molte opere che riguardano questa materia e perpetuare così gli errori, i giudizi e i programmi di ieri, per una carente volontà di studiare le fonti primarie e di fare i conti con il passato.
Ma la necessità di ricominciare da capo si fonda su cose più essenziali che non sulla crescente consapevolezza del grado in cui le percezioni sono state determinate da interessi costituiti. Si sono fatti dei notevoli progressi nella nostra comprensione del contesto intellettuale in cui si è sviluppata l’interazione tra religione e scienza, specialmente nel Medioevo e nel Rinascimento. Gli sviluppi nel campo della sociologia della conoscenza hanno messo seriamente in dubbio certe idee tradizionalmente accettate, in particolare mostrando l’etnocentrismo e il condizionamento culturale di quella che un tempo era vista come la razionalità universale dell’Illuminismo (MANICAS e ROSENBERG 1985). Inoltre, certi presupposti indiscussi (e spesso impliciti) sulla natura della “religione”, che molte volte si richiamavano a preconcetti razionalisti o marxisti su ciò che la religione deve essere, hanno seriamente pregiudicato il dialogo tra scienza e religione stabilendo in anticipo che cosa la religione possa o non possa dire e fare, anziché essere disposti ad affrontarla per ciò che essa effettivamente è nella realtà dell’esperienza e della vita sociale e individuale.
Nelle pagine seguenti esamineremo alcune delle ragioni che indicano la necessità di una profonda revisione dello stato dei rapporti tra religione e scienze naturali. Ad ogni modo, il fattore che rende urgente tale revisione è la crescente consapevolezza di quanto siano incerti i presupposti tradizionali su cui si fondano le concezioni correnti. In certi casi tutto ciò deriva da una conoscenza storica più accurata di quella accessibile alle precedenti generazioni; in altri casi deriva da importanti cambiamenti culturali e intellettuali, che minano la credibilità di presupposti fin qui largamente accettati.
Le quattro considerazioni su cui ci soffermeremo in questa sezione sono le seguenti (va notato che se ne potrebbero facilmente aggiungere altre a questa lista, che è esemplificativa ma non esauriente):
1. L’ascesa del “postmodernismo” ha avuto importanti implicazioni tanto per le scienze naturali quanto per la religione. Nel caso della religione le sue implicazioni sono state completamente esaminate, ma sono invece scarsamente comprese per quanto riguarda le scienze naturali, e quindi pure per quanto concerne il dialogo tra le due discipline.
2. In anni recenti c’è stata una crescente insoddisfazione nei riguardi del fondazionismo filosofico su cui si è basata gran parte della riflessione concernente i rapporti tra le scienze e la religione. Le implicazioni che tale cambiamento ha per il dialogo sono potenzialmente assai rilevanti e dovremo illustrarle.
3. Molte discussioni precedenti sul rapporto tra religione e scienza hanno subito, come abbiamo visto, un’eccessiva influenza in senso negativo dal predominio di schemi e immagini di “conflitto”, basati su prospettive di periodi precedenti della cultura occidentale.
4. La letteratura esistente presenta una tendenza allarmante a perpetuare stereotipi sorpassati e fuorvianti, poiché spesso dipende dalle conclusioni, dalle asserzioni e dai presupposti, molte volte inesatti, di opere più antiche. Di conseguenza, spesso si ripetono fraintendimenti e puri e semplici errori a maggior danno del dialogo così urgentemente necessario.
Nelle pagine seguenti esamineremo brevemente questi punti per indicare alcune delle esigenze che richiedono un nuovo modo di affrontare questo tema. Se ne potrebbero facilmente aggiungere altre per dare un’ulteriore dimostrazione della necessità di un riesame e di un nuovo approccio a un argomento così importante.
Va sottolineato il fatto che nel presente lavoro non si potranno affrontare tutti quei problemi. Mi auguro di poterne trattare alcuni di essi – per esempio la crescente reazione contro il fondazionismo – in altri volumi. è importante tuttavia farsi un’idea sulla natura dei fattori che indicano la necessità di una revisione e di un riesame, sebbene alcune questioni non possano venir trattate nelle prime fasi di questo progetto.
1.3.1 Un cambiamento culturale:
l’ascesa inesorabile del postmodernismo
è impossibile esaminare un aspetto qualsiasi della cultura occidentale moderna senza prendere in considerazione ciò che è stato spesso chiamato “la mutazione postmoderna”. Sebbene le origini di tale tendenza si possano far risalire per lo meno ai primi anni Settanta, il suo pieno impatto non si farà sentire se non alla fine degli anni Ottanta. Il postmodernismo è generalmente considerato come una sorta di sensibilità culturale che non ha assoluti, certezze o fondamenti irremovibili, che si diletta di pluralismo e di divergenze, e che vuol riflettere a fondo sulla sua fondamentale “collocazione” di ogni pensiero umano. Ciascuno di questi aspetti può essere considerato come una deliberata reazione contro la tendenza totalizzante dell’Illuminismo. è praticamente impossibile dare una definizione esauriente del postmodernismo (sebbene abbondino utili rassegne e critiche: si veda, per esempio, HASSAN 1982; HARVEY 1989; BAUMAN 1993; NORRIS 1993; FAIRLAMB 1994; O’NEIL 1994; THISELTON 1995; EAGLETON 1996). Forse la caratteristica che maggiormente distingue questo movimento è la tesi secondo cui le pretese di possesso della verità spesso costituiscano dei tentativi mascherati di giustificare il potere, lo status o gli interessi acquisiti di chi solleva tali pretese. Rimane tuttavia la domanda di sapere se il “postmodernismo” possa essere effettivamente considerato come un movimento specifico e coerente (HOESTEREY 1991).
Stando così le cose, non è ben chiaro quale sia la rilevanza di quella “mutazione postmoderna” per la filosofia della scienza (e quindi per il dialogo con la religione) sebbene alcuni studiosi la ritengano piena di potenziali promesse (si veda, per esempio, TOULMIN 1982; GRIFFIN 1989; SASSOWER 1993; SASSOWER 1995). Se le scienze naturali possono essere separate da ogni altra forma di discorso o di indagine intellettuale (a causa del loro oggetto o delle loro modalità di investigazione), evidentemente la “mutazione postmoderna” avrà su di loro un impatto molto limitato. Tuttavia, ci sono motivi per ritenere che tale ermetico isolamento concettuale non sia possibile, giungendo quindi all’idea che l’ascesa del postmodernismo sollevi delle questioni sia per la scienza, sia per la religione e in particolar modo per il loro reciproco rapporto, sebbene vi siano più che validi motivi per ritenere che una “filosofia postmoderna della scienza” sia impossibile (PARUSKINOVA 1992).
Tuttavia, molte discussioni sui rapporti tra scienza e religione rimangono saldamente fondate su un insieme di presupposti che si possono soltanto definire come “moderni” (in contrapposizione a “postmoderno”: si veda LEVENSON 1984; CALINESCU 1987). Senza voler affatto implicare che ciò ne invalidi in qualche maniera le conclusioni, va detto che senza dubbio ne esige il riesame alla luce delle mutazioni talvolta sottili e sempre complesse che si producono negli schemi di pensiero e nei presupposti ereditati che hanno accompagnato (o forse determinato?) l’ascesa del postmodernismo.
Ma fino ad oggi la discussione “postmoderna” dei metodi e dei risultati epistemologici delle scienze naturali (specialmente delle scienze fisiche) è parsa a più d’uno un po’ affrettata e superficiale nelle sue analisi. Un eccellente esempio è fornito dal notevole saggio di Lyotard, The Postmodern Condition (originariamente pubblicato in francese nel 1979), in cui si sostiene che un risultato immediato della diversità inerente il mondo postmoderno deve essere l’abbandono di qualsiasi nozione di “consenso” morale o intellettuale (LYOTARD 1992, p. 66). Lyotard stesso sembra riluttante a spingere fino in fondo tale concetto, per esempio concludendo che “giustizia” cesserebbe di essere una nozione universale. Tuttavia non sembra esitare affatto nell’applicare quel criterio alle scienze naturali. Per lui le scienze naturali dipendono da un “paralogismo5”, ossia da un ragionamento difettoso e persino contraddittorio, che abbandona ogni pretesa di possedere o di essere governato da resoconti centralizzanti (LYOTARD 1992, p. 60):
La scienza postmoderna – occupandosi di cose come gli indecidibili, i limiti del controllo esatto, i conflitti caratterizzati da informazione incompleta, i frattali, le catastrofi6 e i paradossi pragmatici – teorizza la propria evoluzione come discontinua, catastrofica, non correggibile e paradossale. Sta modificando il significato della parola conoscenza mentre dice in che modo tale cambiamento può avvenire. Non produce il conosciuto ma l’ignoto.
Questo modo di presentare metodi, fini e risultati delle scienze naturali non viene affatto preso sul serio dalla comunità scientifica né da molte altre persone estranee a essa. L’idea è che qualunque analisi – sociologica o filosofica – che neghi alle scienze naturali l’idoneità a fare delle affermazioni vere sulla natura del mondo mette in questione la capacità di quell’analisi stessa di fare affermazioni vere sulla natura della scienza. L’auto-invalidarsi di quelle critiche della scienza rimane una grave debolezza di quel tipo di relativizzazione postmoderna delle scienze naturali, patrocinata da Lyotard. Questi, ad ogni modo, dà l’impressione di essere un po’ confuso sugli scopi e sulle possibilità delle scienze naturali. Come ha notato Steven Connor, c’è una vera e propria sconnessione tra la presentazione di Lyotard e la realtà delle scienze empiriche (CONNOR 1989, p. 35).
Lyotard presenta un quadro nel quale le scienze si dissolvono in una frenesia di relativismo il cui solo scopo sta nel saltare allegramente fuori dalla prigione dei vecchi paradigmi stantii e nel calpestare le procedure operative, alla ricerca di esotiche forme di illogicità. Ma le cose non stanno così: se certe forme delle scienze pure (gli esempi ovvi sono ancora una volta la matematica e la fisica teorica) si occupano di esplorare differenti strutture di pensiero per comprendere la realtà, tutto ciò continua a rimanere vincolato, nel suo insieme, a modelli di razionalità, di consenso e di corrispondenza a verità dimostrabili.
Questo libro si propone, se non altro, di cominciare a esaminare alcune di tali questioni, nella convinzione che sono effettivamente importanti e illuminanti.
1.3.2 Un cambiamento filosofico: la lenta morte
del fondazionismo
Uno degli sviluppi più significativi delle recenti discussioni filosofiche (specialmente nel campo della filosofia della religione) è la crescente critica di ciò che viene chiamato “fondazionismo” (si veda, per esempio, WILLIAMS 1977; FRANKENBERRY 1987; CROOK 1991; UEBEL 1996). Il contesto di tale sviluppo è complesso; in linea generale lo si può pensare come una vigorosa critica dell’intera visione illuministica del mondo, basata sulla convinzione che esistano alcune credenze razionali universali fondanti, che possono essere accertate mediante un debito processo intellettuale, e quindi fare da base alla conoscenza umana. Si può intendere il fondazionismo come la diffusa dottrina filosofica occidentale secondo cui ogni convinzione non fondamentale debba essere in fin dei conti accettata sulla base di certezze o realtà universalmente cogenti, che da parte loro non hanno bisogno di supporto e che trascendono particolarismi di natura culturale, cronologica e geografica. L’Illuminismo in generale riteneva che tali certezze si limitassero a quelle di per sé evidentemente vere o connesse direttamente con l’esperienza sensibile di ciascuno, o che fossero evidenti ai sensi. Le certezze fondazioniste funzionano quindi come la necessaria infrastruttura su cui si può erigere l’edificio della filosofia.
Le origini del fondazionismo si fanno risalire di solito alla preoccupazione di Descartes di stabilire una base conoscitiva che non poggiasse sull’autorità della chiesa o dello Stato, e che fosse valida per tutti i popoli, in ogni luogo e in ogni tempo (SOSA 1980). In quell’epoca, come ha dimostrato Stephen Toulmin, la filosofia aveva un grande interesse per la matematica, ritenendo che le certezze di tale disciplina indicassero la possibilità di un analogo successo in campi quali la filosofia e la teologia. Tutte le verità fondamentali della scienza e della teologia potevano quindi essere stabilite in modo quasi geometrico (TOULMIN 1990, 1-87). Gli assiomi geometrici di Euclide potevano avere una loro controparte in assiomi filosofici ed etici, segnatamente in quelli esposti da Spinoza.
Il richiamo alla geometria è particolarmente rilevante. è noto che lo sviluppo di una geometria non-euclidea durante il XIX secolo è stato di particolare importanza nel minare la fiducia nella nozione kantiana di intuizioni sintetiche a priori (che si possono considerare altrettanto significative in relazione al programma fondazionista nel suo insieme), in quanto Kant aveva trattato gli assiomi della geometria euclidea come nozioni non empiriche, che pertanto hanno la qualità di essere universali e necessarie. Si riteneva che dai cinque assiomi della geometria euclidea derivasse una serie di certezze necessariamente vere, non soggette al carattere contingente delle affermazioni derivate dall’esperienza. Tuttavia, verso il 1865, fu chiaro che la situazione non era affatto così semplice come Kant l’aveva immaginata. Gli assiomi di Euclide valgono nel caso particolare di curvatura zero, mentre quelli di Bolyai e Lobachevsky valgono nel caso di una curvatura negativa e quelli di Riemann quando la curvatura è positiva. Verso il 1915 la situazione si fece ancora più complessa a causa del postulato, contenuto nella teoria della relatività generale di Einstein, secondo cui la vera geometria dello spazio è riemanniana, non euclidea, e di curvatura variabile.
In anni recenti, la nozione di una certezza necessariamente vera (ma non banale) è stata attaccata per vari motivi. Sebbene quell’idea mantenga la sua influenza in certi ambienti, è trattata con crescente sospetto e cautela in altri. Per molti, ciò che è “evidentemente vero” sembra dipendere dai presupposti ereditati a proposito dell’evidenza e della garanzia da parte di chi pensa, compreso (come ha sottolineato Sigmund Freud) un gruppo di certezze che non può essere coscientemente articolato. L’idea di “buon senso” o di “senso comune”, come ha rilevato l’antropologo Clifford Geertz, è in realtà un concetto culturalmente condizionato che rispecchia le credenze, le norme e i valori di un gruppo costituito in società (GEERTZ 1983). è una forma di “conoscenza locale”, da cui non si può estrapolare una qualche verità universale, globalmente valida.
L’appello dell’Illuminismo alla “ragione” o alla “razionalità”, come hanno fatto notare autori quali Alasdair MacIntyre, ha fatto sorgere una serie di aspettative intorno alla competenza e alle capacità della ragione, a cui non hanno effettivamente corrisposto i risultati. Tanto i pensatori dell’Illuminismo quanto i loro successori non sono riusciti ad accordarsi su quali siano esattamente quei principi che dovrebbero risultare innegabili per qualsiasi persona raziocinante, tanto che l’eredità dell’Illuminismo è di fatto l’affermazione di un ideale teorico di giustificazione razionale che si è dimostrato irraggiungibile nella pratica (MACINTYRE 1988). Va notato che rimangono importanti autori impegnati a favore di taluna o tal’altra forma di fondazionismo, specialmente William P. Alston (ALSTON 1989; CZAPKAY SUDDUTH 1995a); tuttavia, se ne ricava la netta impressione che si stia producendo un notevole riorientamento, che comporta uno spostamento verso un modo di vedere per lo meno non fondazionista, e forse antifondazionista. Le implicazioni di tale spostamento sono di grandissima rilevanza per il nostro tema e richiedono pertanto un attento studio7.
La particolare forma di fondazionismo connessa con l’Illuminismo ha avuto una profonda influenza sulla teologia cristiana moderna ed è assolutamente plausibile che stiamo cominciando soltanto ora a capire in che misura molte abitudini e modi di pensare della teologia cristiana recente siano stati predeterminati da quei presupposti (THIEMANN 1985, pp. 6-46; THIEL 1994, pp. 38-78). Le abitudini di pensiero e di espressione, proprie di molti scritti cristiani del XX secolo, sono state formate da paradigmi di razionalità che devono la propria esistenza e la propria forma ai presupposti dell’Illuminismo. Uno dei caratteri distintivi del movimento complesso e talvolta frammentario, spesso indicato come “postmodernità”, consiste nel rifiuto dei paradigmi conoscitivi dell’Illuminismo e specialmente del suo richiamo alle verità “universali e necessarie”, considerati come oppressivi o illusori (si veda CONNOR 1989; GRIFFIN 1989; JAMESON 1992; NORRIS 1993; FAIRLAMB 1994; LYON 1994).
Numerose opere che trattano del tema generale della “razionalità nella scienza” (si veda, per esempio, NEWTON-SMITH 1981; TRIGG 1993) in realtà si riferiscono a questioni più specifiche come “implicazione” o “giustificazione”, in quanto “razionalità” è considerato sinonimo (o per lo meno generico equivalente) dell’idea correlata (ma non identica) di “essere implicato l’avere qualche convinzione”. Dato il crescente disappunto verso l’uso acritico del gruppo di vocaboli che contiene “razionale” o “razionalità”, propongo di evitarne l’utilizzo in questo libro e di servirsi invece di termini più significativi e appropriati come “giustificazione” “garanzia” “implicazione” (GILBERT and MULKAY 1982; ALSTON 1989; HUYSSTEEN 1989; PLANTINGA 1993a).
è corretto ricordare che le conseguenze di questa presa di distanza dal fondazionismo devono ancora essere studiate nelle loro relazioni con la filosofia della scienza (si veda, però, MURPHY 1987; MURPHY 1988; CLAYTON 1989, 150-3), sebbene essa abbia avuto una notevole influenza su certe discussioni recenti di filosofia della religione (specialmente nell’ambito dell’epistemologia8 riformata: si veda PHILIPS 1988; ALSTON 1991; HOITENGA 1991; CZAPKAY SUDDUTH 1995a; GRUBE 1995) e di teologia sistematica (specialmente in relazione con la “Scuola di Yale”: si veda LINDBECK 1984; THIEMANN 1985; MCGRATH 1996b). C’è già, tuttavia, una diffusa percezione del fatto che un’epistemologia non fondazionista esiga una metafisica non realista, allo stesso modo in cui vi è un nesso molto chiaro tra fondazionismo epistemologico e realismo metafisico (SEARLE 1993; ALSTON 1996, pp. 65-84). Tale percezione è peraltro del tutto ingiustificata. Una delle questioni principali che occorrerà studiare in questo progetto è quella di sapere esattamente quali implicazioni abbia per la teologia e per le scienze naturali questa presa di distanza dal fondazionismo.
1.3.3 Il perpetuarsi di stereotipi sorpassati
Il passato continua a influire sul presente in più modi, oltre a quelli già menzionati; il più inquietante è la ripetizione acritica di materiale di dubbia autenticità derivato da precedenti autori senza che ci si prenda la briga di verificare se il materiale in questione è attendibile. Ne risulta inevitabilmente il perpetuarsi di certe tradizioni, basate molte volte su grossolani errori materiali. Una determinata affermazione è ripetuta da successivi autori, spesso con qualche variazione, senza l’applicazione delle norme critiche che sono normalmente ritenute necessarie in uno studio serio. Perciò l’idea popolare del rapporto tra scienza e religione si basa, almeno in parte, su discorsi che sono poco più che leggende metropolitane, storie ripetute infinite volte, che diventano plausibili per la frequenza delle ripetizioni anziché per un loro qualsiasi fondamento reale.
Si tratta di un fatto particolarmente importante in relazione ai rapporti tra scienze naturali e religione. In questo campo, molte opere sono state scritte da scienziati con scarsa conoscenza della religione, che spesso mostrano di dipendere per la loro informazione religiosa da fonti e testi secondari. Allo stesso modo, moltissimi autori religiosi mancano di sufficiente competenza in campo scientifico e dimostrano anch’essi la loro dipendenza da fonti secondarie. In tal modo si perpetuano o si producono gravi errori di fatto o di giudizio, per mancanza di competenza e di sicurezza da parte di studiosi al corrente della complessità di una certa disciplina ma non di quella dell’altra.
Gli esempi di gravi errori, in testi scientifici teoricamente seri, sono legioni. Si veda, per esempio, la serie di esperimenti compiuta da Walter Kaufmann (1871-1947) sugli elettroni. Nel suo libro di testo su La teoria della relatività in Einstein (1965), l’eccellente fisico Max Born fa la seguente affermazione:
Gli esperimenti di Kaufmann (1901) e di altri che hanno deviato dei raggi catodici mediante campi elettrici e magnetici, hanno dimostrato molto accuratamente che la massa degli elettroni cresce con la velocità, secondo la formula di Lorenz.
Stando ai fatti è sbagliato: il successo ottenuto da Kaufmann e altri stava nel mostrare che la formula di Lorenz è errata. Eppure Max Born era uno dei personaggi di spicco nel suo campo e ha avuto grandissima influenza nello sviluppo della scuola di Copenhagen sulla teoria quantistica. Sulla base della sua autorevolezza, quella valutazione totalmente sbagliata del significato degli esperimenti di Kaufmann è diventata moneta corrente in tutti i libri di testo di fisica finché è stata finalmente corretta (CUSHING 1981). Se tale interpretazione gravemente errata del materiale storico è passata inosservata ai fisici per quindici anni, che speranza di rettificarla possono mai avere coloro che si specializzano in studi religiosi? Non è affatto sorprendente che molti gravi errori di giudizio su materie scientifiche siano perpetrati o perpetuati da teologi bene intenzionati.
Questa particolare difficoltà ha ovviamente due versanti. Le complessità della teologia e della storia delle religioni sono forse eccessive perché degli scienziati oberati di lavoro possano occuparsene. Si ritrova anche qui, inevitabilmente, lo stesso perpetuarsi di testi di studio e di giudizi sorpassati, senza una precisa consapevolezza del progresso compiuto dagli studi in anni recenti. Un esempio particolarmente interessante riguarda il leggendario incontro del vescovo Samuel Wilberforce con T.H. Huxley durante la seduta della British Association a Oxford il 30 giugno 1860. Le versioni popolari di quell’incontro (illustrate benissimo da Irvine 1956, p. 6) presentano Wilberforce come un prete ignorante che cerca di segnare qualche facile punto contro Huxley prima di essere magnificamente messo a tacere da quest’ultimo. In realtà, Wilberforce aveva scritto un’ampia recensione della Origine delle specie di Darwin cinque settimane prima di quell’incontro e l’aveva riassunta nel suo intervento. Darwin stesso considerava quella recensione come “insolitamente intelligente” perché identificava “abilmente gli aspetti più congetturali” della teoria e ne segnalava alcuni seri punti deboli da rivedere.
Lo scritto di Darwin del 1868 The Variation of Animals and Plants under Domestication (La variazione in animali e piante in ambiente domestico) può essere considerato come una risposta alle critiche di Wilberforce (LUCAS 1979).
Le relazioni del tempo su quella seduta della British Association non menzionano affatto quell’incontro (LIVINGSTONE 1987, pp. 33-5). Soltanto dopo il 1890 venne pubblicata una particolare versione di quell’evento, che pare aver acquistato una sorta di canonicità in un’epoca, va notato, in cui Wilberforce era singolarmente impopolare. Dopo aver esaminato le fonti di prima mano su cui si fonda la leggenda dell’incontro Wilberforce-Huxley, J. R. Lucas osserva che esse “dicono pochissimo su quanto accadde a Oxford il 30 giugno 1860, ma dicono un mucchio di cose sulle correnti di pensiero della fine del secolo” (LUCAS 1979, p. 330).
Si potrebbe naturalmente argomentare che la leggenda metropolitana di quell’incontro è puramente ironica e priva di rilevanza intellettuale. Ma molto spesso la situazione è assai più seria, perché implica gravi travisamenti della posizione intellettuale di singole persone o di scuole di pensiero, con influenza diretta sulle relazioni tra scienza e religione. Un esempio servirà a illustrare il carattere e l’ampiezza del problema.
Nell’ultima edizione (1961) della sua Storia della filosofia occidentale il filosofo britannico Bertrand Russell propone una versione molto influente e popolare della complessa evoluzione della filosofia moderna in Occidente e dei vari ostacoli incontrati nel suo sviluppo. Uno degli ostacoli principali, secondo Russell, è stata la teologia cristiana. Russell illustra il “bigottismo” della teologia cristiana in una spigliata narrazione delle prime avventure della teoria copernicana del sistema solare e mette in particolare rilievo la critica che ne fa Calvino, sottoponendola a una valutazione assai negativa (Russell 1961, p. 515):
Calvino, analogamente, demolì Copernico con una citazione: “Il mondo quindi è stabile e non sarà scosso” (Sal. 93,1), ed esclamò: “Chi oserà mettere l’autorità di Copernico al di sopra di quella dello Spirito Santo?”9.
Il libro di Russell, diffusamente usato come introduzione a quell’importante argomento, ebbe una tale influenza da diffondere ampiamente l’idea di un semplicistico rifiuto dei progressi scientifici da parte di Calvino.
Tuttavia, la citazione che Russell attribuisce a Calvino non indica la fonte. Potrebbe sembrare una cosa di poca importanza, dato che Russell non voleva affliggere i suoi lettori con un apparato critico, presumibilmente allo scopo di facilitare la lettura. Ma occorre chiedersi: Calvino ha mai scritto le parole che Russell gli attribuisce? E se non l’ha fatto, qual è la fonte da cui Russell ricava quella presunta paternità? Una semplice rilettura degli scritti di Russell rivela che la stessa attribuzione compare nel suo Religione e scienza (RUSSELL 1935, p. 23):
Melantone fu altrettanto deciso; come pure Calvino, il quale, dopo aver citato il testo: “Il mondo quindi è stabile e non sarà scosso” (Sal. 93,1) concluse trionfalmente: “Chi dunque si avventurerà a porre l’autorità di Copernico al di sopra di quella dello Spirito Santo?”10.
Neppure in questo caso viene citata la fonte. L’autorità intellettuale di Russell era tale che nessuno si prese la briga di controllare.
Forse è stata un’imprudenza. Questa leggenda metropolitana non è stata messa in discussione fino al momento in cui Thomas S. Kuhn cercò di rintracciarne l’origine nel quadro del suo studio del contesto della rivoluzione copernicana. Kuhn non trovò quella citazione in Calvino, bensì nella History of the Warfare of Science with Theology in Christendom (Storia della guerra della scienza contro la teologia nella cristianità), 1896, di Andrew Dickson White, già menzionato. Pare che Russell abbia ricavato la sua informazione dal seguente brano dell’opera di White (WHITE 1896, vol. I, 127):
Calvino nel suo Commentario sulla Genesi fu il primo a condannare tutti quelli che asserivano che la Terra non è al centro dell’universo. Egli risolse la questione con il solito riferimento al primo versetto del Salmo 93 e chiese: “Chi oserà mettere l’autorità di Copernico al di sopra di quello dello Spirito Santo?”.
White, come si vede, non indica la fonte della sua citazione ma allude al commento di Calvino al Salmo 93,1. Ci si può dunque chiedere in quale parte della vasta opera scritta da Calvino il White abbia trovato quella citazione. La risposta è deludente. Con un notevole lavoro di investigazione letteraria, Edward Rosen ha mostrato che quella citazione poteva esser fatta risalire non alle opere di Calvino, ma a un libro pubblicato nel 1886 da F. W. Farrer. Neppure in questo caso viene menzionata la fonte della citazione.
Per Rosen la traccia si fermava a quel punto. Farrer era un ecclesiastico dell’Abbazia di Westminster, a Londra, che probabilmente non aveva né la voglia, né la capacità di controllare le sue affermazioni. L’osservazione attribuita a Calvino va dunque liquidata come una pura invenzione (Rosen 1960). Lo studio di Rosen è senz’altro molto interessante, ma devo confessare che non sono convinto che White abbia tratto la sua citazione direttamente da Farrer. La ricerca di Rosen mi fa pensare che tanto Farrer quanto White abbiano attinto da una terza fonte, comune ai due, ma a noi sconosciuta.
L’attribuzione di quell’opinione a Calvino costituisce dunque un grosso problema. Non solo la citazione non compare nelle opere di Calvino e nasce da una fonte secondaria e inattendibile, ma è pure in contrasto con quanto è noto dell’atteggiamento del Riformatore in materia. Già nel 1956 Hooykaas notava che quella presunta opinione è assolutamente incompatibile con i principi esegetici di Calvino (HOOYKAAS 1956). Ulteriori e approfonditi studi hanno mostrato che Calvino non fa nessun commento specifico su Copernico, né in quel caso, né in nessuna parte dei suoi scritti. Ciò non significa che Calvino ignorasse Copernico, ma che semplicemente riteneva fosse fuori luogo da parte sua fare dei commenti al riguardo, persino in certi punti della trattazione della Genesi in cui la cosa sarebbe parsa naturale (STAUFFER 1971, p. 31)11.
Ci troviamo dunque di fronte a un fatto sconcertante: un’importante citazione, attribuita a Calvino, non si trova in nessuna delle sue opere e sembra fondata soltanto sulla pigrizia degli studiosi. Quell’osservazione attribuita a Calvino, in base alla quale egli stesso e la religione in genere sono stati giudicati, è in realtà un falso. Quante altre leggende metropolitane simili a questa deturpano alcuni libri riguardanti il nostro tema? E quante altre, ancor più numerose, alimentano la visione popolare dei rapporti tra scienza e religione? Non è facile quantificare il danno recato alle possibilità di dialogo da tali leggende metropolitane, propagate da storici dilettanti del secolo scorso. La recente ascesa di una professionalità scientifica in questo campo finirà indubbiamente per eliminare molti di quei miti dalla letteratura e condurrà a un modo meglio informato e più equilibrato di trattare questa materia.
è forse giunto il momento di fare chiarezza su due questioni diverse, per quanto strettamente connesse: da un lato l’insieme delle credenze e dei comportamenti che si possono ragionevolmente definire come “cristianesimo”, e dall’altro le istituzioni normalmente indicate come “la chiesa cristiana”. Nel primo caso, l’accento cade su un’idea o un insieme di idee; nel secondo caso cade invece su un’organizzazione che non può evitare di trovarsi coinvolta in questioni sociali, politiche, finanziarie, e persino militari. Siamo perfettamente d’accordo che non è possibile giungere a un’assoluta separazione delle due realtà (in quanto il cristianesimo non è semplicemente un’idea, ma un modo di vivere: MCGRATH 1996c), tuttavia è importante per lo meno avvertire il pericolo che sussiste quando la critica di una particolare azione storica della chiesa cristiana viene direttamente trasformata in una radicale messa in stato d’accusa delle idee centrali del cristianesimo. In certi momenti della storia, l’istituzione ecclesiastica ha dimostrato di aver perso di vista le idee specificamente cristiane e di aver avuto bisogno di esservi richiamata da una critica pertinente.
La Riforma avvenuta in Europa nel XVI secolo illustra perfettamente queste affermazioni. La Riforma è stata una vigorosa critica della chiesa medioevale su parecchi punti, compresa la struttura, l’etica e per lo meno alcune delle sue credenze (MCGRATH 1987; CAMERON 1991, pp. 9-93). Tali credenze erano in genere delle superstizioni medioevali che venivano rifiutate a favore di una versione della fede e della prassi cristiana ritenuta più autentica. Il presupposto soggiacente consisteva nel ritenere che si potesse operare una distinzione tra le idee fondamentali del cristianesimo, specialmente quelle che si trovano nella Bibbia e nel pensiero della chiesa primitiva, e gli sviluppi ulteriori di quelle idee e le loro incarnazioni istituzionali nell’apparato ecclesiastico. Era quindi possibile muovere una critica contro la chiesa tardo-medioevale e le sue idee in base al presupposto secondo cui la chiesa si era in qualche modo allontanata dalle sue concezioni e dalla sua visione originarie, e aveva bisogno di una correzione. Molti teologi della fine del Medioevo criticavano attivamente l’insegnamento della chiesa del loro tempo e militavano per una revisione di alcune delle sue dottrine ufficiali.
è evidente che molte tra le maggiori controversie del passato su “scienza e fede” si basavano sul fatto che la chiesa in quanto istituzione si sentiva minacciata dagli sviluppi che mettevano in questione la sua posizione e la sua autorità. Il dibattito copernicano illustra perfettamente tale affermazione, come vedremo. Un altro punto da tener presente è che le prassi delle istituzioni di certi ambienti specialistici sono spesso determinate da piccoli gruppi e talora da singoli individui. L’organizzazione della chiesa medioevale implicava che certe decisioni fossero spesso pesantemente influenzate da consulenti di alto rango. Nel caso della controversia copernicana c’è motivo di ritenere che gli importanti cambiamenti avvenuti nella casa pontificia negli anni tra il 1530 e il 1550 abbiano avuto un ruolo importante nel modificare l’atteggiamento ufficiale della chiesa cattolica verso Copernico. Si sa che Johann Albrecht Widmanstetter, segretario di papa Clemente VII, gli spiegò la teoria copernicana nei giardini vaticani nel 1533, ricevendone a quanto pare una risposta favorevole e piena di interesse (STRIEDL 1953). Dieci anni più tardi, però, l’atmosfera della casa pontificia era notevolmente cambiata.
Nel luglio del 1542 un nuovo Maestro del Sacro Palazzo assunse la sua carica. Pare che Bartolomeo Spina abbia avuto un ruolo importante nel produrre un cambiamento d’opinione in senso negativo nei riguardi della teoria copernicana alla vigilia della sua pubblicazione nel 1543 (KEMPFI 1980-1). Ma, cosa forse ancora più importante, c’era un nuovo papa. Paolo III (1543-49) era ben consapevole del pericolo che il sorgere della Riforma rappresentava per la chiesa cattolica e si preoccupava di prendere delle misure per far fronte alla minaccia che incombeva dall’Europa del Nord. Nel 1542 veniva ristabilita l’Inquisizione romana per imporre l’ortodossia dottrinale in Italia; il Concilio di Trento si riunì nel 1545 per cominciare a pianificare una vigorosa risposta alla Riforma. Paolo III stesso si sentiva minacciato e non era certamente in uno stato d’animo favorevole a Copernico.
Questi fatti, tuttavia, non si possono considerare come una dimostrazione prima facie di un conflitto fondamentale tra il sistema copernicano e il cristianesimo. Altri autori cristiani di quel periodo (compreso Tiedemann Giese, vescovo di Chelmno, fortemente antiluterano) ritenevano la teoria di Copernico compatibile con il cristianesimo, e Giese lo scrisse in un trattato ora perduto. Anzi, è molto probabile che egli stesso, basandosi sulla propria conoscenza delle procedure della corte papale, consigliasse Copernico sul modo migliore di rendere la sua teoria accettabile al papato (WESTMAN 1990, pp. 19-92). è molto interessante immaginare che cosa sarebbe successo se Copernico avesse avanzato le sue idee in un tempo in cui la chiesa romana non si fosse sentita a tal punto minacciata dal luteranesimo. Con il senno di poi ci si può chiedere se sia stato davvero saggio permettere che l’eminente scrittore luterano Andrea Osiander redigesse una prefazione al De revolutionibus in un momento in cui il papato era così preoccupato dal pericolo costituito dalle idee luterane.
La vera questione è nel come si interpreta il conflitto tra l’autorità ecclesiastica e le nuove idee (siano esse l’emanazione degli autori religiosi della Riforma o degli scrittori della “rivoluzione scientifica”). Personaggi di alto livello nella chiesa cattolica accusarono Lutero di essere “non biblico” nel suo insegnamento, intendendo con ciò dire che egli sovrapponeva ai passi biblici commenti inaccettabili (BAGCHI 1991); esattamente la stessa critica fu rivolta dalle autorità ecclesiastiche contro Copernico e più tardi contro Galileo (BLACKWELL 1991), sebbene in ciascun caso si facesse riferimento a passi biblici diversi. Effettivamente ci sono notevoli somiglianze tra i modi in cui la chiesa cattolica rispose alle rivoluzioni luterana e copernicana, rispecchiando nei due casi la percezione di una minaccia alla posizione privilegiata della chiesa stessa. Le due rivoluzioni vennero liquidate dalle autorità come innovazioni non cristiane, nonostante i saggi consigli di altolocate personalità ecclesiastiche, che le consideravano come correzioni fatte bona fide alle (errate) letture, allora dominanti, di certi passi della Scrittura.
Una delle più scandalose e dolorose maniere di perpetuare stereotipi superati nell’ambito di scienza e religione consiste nella trita e ritrita ripetizione del mito secondo cui scienza e religione sono bloccate in un conflitto mortale. è quindi opportuno rilevare a questo punto la durevole influenza di schemi generalmente negativi dell’interazione tra scienze naturali e religione. Tali schemi di “conflitto” o di “guerra”, fondati e modellati da forze sociali che erano particolarmente importanti nel XIX secolo, continuano a influire sulle presentazioni popolari del rapporto tra scienza e fede. è dunque necessario analizzare le origini di quegli schemi per superare il conflitto che essi presuppongono e alimentano, muovendosi verso una più positiva modalità di interazione.
1.4 Il predominio dei modelli di “conflitto”
tra scienza e religione
Senza dubbio uno degli ostacoli più notevoli al dialogo scienza-religione è costituito dalla minacciosa presenza di una scuola di pensiero che interpreta quei rapporti come una “guerra”. Tale immagine è stata considerata da molti come liquidata storicamente e intellettualmente dai colpi che le sono stati inferti dagli storici e da altri autori negli ultimi trent’anni, ma essa continua a proiettare una lunga ombra sul terreno, pregiudicando ancora notevolmente le possibilità di progresso. Se il rapporto tra scienza e religione è percepito (anzi, visto pregiudizialmente) come “conflitto” si crea una corrispondente predisposizione a minimizzare in anticipo le potenzialità del “dialogo”.
L’idea popolare di quei rapporti continua a essere profondamente condizionata da immagini di tensione, di conflitto e di guerra. Sebbene circa il 40% degli scienziati professi convinzioni religiose di un qualche tipo (LARSON E WITHAM 1997), l’idea dominante è che le scienze naturali si contrappongano alle convinzioni religiose. La minaccia che questo linguaggio bellicoso fa pesare sul dialogo contemporaneo tra le scienze e la religione è ben chiara. è quindi importante capire come si sia sviluppato quel tipo di terminologia.
Ovviamente, tra gli addetti alle scienze naturali vi sono alcuni (notevole fra tutti il biologo molecolare oxfordiano Richard Dawkins) che rimangono convinti, e lo dicono a gran voce, dello schema guerresco (si veda DAWKINS 1986; DAWKINS 1989; POOLE 1994; DAWKINS 1997). Occorre tuttavia valutare opportunamente il fatto che la responsabilità di perpetuare lo schema conflittuale non ricade soltanto su certi scienziati antireligiosi; dipende pure da atteggiamenti antiscientifici profondamente sentiti da parte di una sezione del fondamentalismo nordamericano, un tipo di cristianesimo che si caratterizza per il suo aggressivo rifiuto della scienza, che considera anticristiana (NUMBERS 1982; GATEWOOD 1984; NUMBERS 1992; DAVIS 1995). Nelle pagine che seguono esamineremo i due volti di questo complesso problema. Cominciamo col prendere in considerazione il modo in cui certi scienziati hanno percepito la religione come ostile al loro progresso.
1.4.1 La religione nemica della scienza
In un magnifico saggio di pochi anni fa, intitolato Lo scienziato come ribelle (DYSON 1995), Freeman Dyson sottolinea che un elemento comune alla maggior parte delle intuizioni scientifiche è “la ribellione contro le restrizioni imposte dalla cultura locale predominante”. La scienza è dunque un’attività sovversiva quasi per definizione: tema sollevato in una celebre conferenza tenuta alla Società degli Eretici di Cambridge dal biologo J.B.S. Haldane nel febbraio del 1923. Per il matematico e astronomo arabo Omar Khayyam, la scienza era una ribellione contro le costrizioni intellettuali dell’Islam; per gli scienziati giapponesi del XIX secolo la scienza era la ribellione contro il persistente feudalesimo della loro cultura; per i grandi fisici indiani del XX secolo la loro disciplina era una poderosa forza intellettuale diretta contro l’etica fatalistica dell’induismo (per non parlare dell’imperialismo britannico allora dominante in quella parte del mondo). Anche nell’Europa occidentale il progresso scientifico ha comportato inevitabilmente lo scontro con la cultura del momento, ivi compresi i suoi elementi politici, sociali e religiosi. Poiché l’occidente è stato dominato dal cristianesimo, non è affatto sorprendente che la tensione tra scienza e cultura occidentale sia stata spesso vista come uno scontro tra scienza e cristianesimo.
Tale antagonismo può essere interpretato in parte in termini sociologici, come il riflesso della lotta di due élites della società inglese al principio del XIX secolo (TURNER 1974; TURNER 1978; WELCH 1996). In una prospettiva sociologica la conoscenza scientifica può essere vista come una risorsa culturale costruita e usata da certi gruppi sociali per il raggiungimento di fini e interessi loro propri. (RUDWICK 1981). Questo modo di vedere le cose getta una luce vivida sulla competizione sempre più intensa tra due gruppi della società inglese del XIX secolo: il clero e gli scienziati di professione. Al principio del secolo il clero era generalmente considerato come una élite e il “parroco scienziato” era uno stereotipo sociale bene affermato (CANNON 1978, p. 2).
Ma con l’apparizione dello “scienziato di professione” si innescò una lotta per la supremazia, intesa a stabilire chi avrebbe avuto il maggior ascendente culturale nella seconda metà del secolo. Lo schema “conflittuale” va visto alla luce della particolare situazione dell’epoca vittoriana in cui un gruppo emergente di intellettuali di professione cercava di soppiantare il gruppo che fino a quel momento aveva occupato il posto d’onore (HEYCK 1982, pp. 87-8). L’affermazione della teoria darwiniana conferì nuova giustificazione scientifica a quello schema: si trattava della lotta per la sopravvivenza del più adatto… intellettualmente. All’inizio del XIX secolo la British Association co