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Il Vangelo secondo Marco
Corina Combet-Galland
2.1 Presentazione
2.1.1 Genere letterario
Se il vangelo è il contenuto della proclamazione cristiana, la buona novella della liberazione degli uomini per opera di Dio in Gesù, il Vangelo secondo Marco è la prima narrazione giunta fino a noi che ne ricostruisca la storia. Il racconto si apre con il termine stesso Âé•ÁÁ€ĎèÔÓ nel suo duplice significato di inizio: inizia il lieto annuncio, come una voce vivida, e inizia anche lo scritto che lo riceve e lo forgia nella forma di un racconto di vita. La prima frase, inoltre, specifica che si tratta del vangelo “di Gesù Cristo” e, secondo manoscritti attendibili, “Figlio di Dio”. Qui, nuovamente, ci si presentano due possibili modi di intendere, ossia il vangelo è il messaggio che Gesù, come soggetto, proclama: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (1,15); è anche il racconto di cui Gesù proclamatore è oggetto, che ricompone l’itinerario di Cristo sul cammino degli uomini, tra il Giordano in cui è stato battezzato, al confine della Galilea, e il nuovo appuntamento in Galilea, dato ai suoi prima del suo arresto a Gerusalemme (14,28), e richiamato alla memoria nel sepolcro vuoto (16,1-8).
Il termine vangelo si carica di significati durante la narrazione e anche sulle labbra di Gesù. Alla fine del prologo, Gesù proclama “il vangelo di Dio” (1,14). Ma il termine viene presto ripreso in senso assoluto nella sua esortazione a credere (“credete al vangelo”; 1,15) e questo permette una variazione del significato: da quel momento il vangelo di Dio si incarna nella vita di Gesù e prende un volto nei suoi incontri mediante i quali viene raccontata la sua stessa vita. La vicinanza del Regno si attualizza nelle sue parabole e nei suoi miracoli senza pur tuttavia esaurirvisi. Il percorso dell’esistenza di Gesù non smette al tempo stesso di aprirsi su Dio e di offrirsi ai discepoli, poi ai lettori del racconto, per un’imitazione feconda. In 8,35 e 10,29, l’espressione “per amor mio e del vangelo” – utilizzata per fondare l’esortazione a portare la propria croce, a rinunciare alle proprie ricchezze – pone sullo stesso piano il messaggio e la persona di Gesù che parla. Così la soglia da varcare per entrare nel regno di Dio (1,15) si realizza nella stretta via della croce, ma il Regno resta intanto sempre al di là, atteso; nell’ultima cena, Gesù lo evoca al di là della morte, come il giorno che verrà in cui berrà del vino nuovo (14,24-25). In 13,10 e in 14,9 la proclamazione futura e universale del vangelo che Gesù annuncia supera il suo compito; in questo punto il racconto parla anche di esso stesso mentre viene scritto e vi integra il campo missionario dei suoi lettori. Anche qui il vangelo e la croce si illuminano a vicenda: la testimonianza viene resa nel mezzo delle denunce fratricide e dei processi (13,9-13), e sull’annuncio si innesta per sempre la memoria del gesto d’amore della donna di Betania, ricevuto da Gesù come l’unzione anticipata per la sua sepoltura (14,3-9).
Il Vangelo secondo Marco ha per particolarità il costituire una tappa di transizione. è erede di fonti orali, oppure di fonti già in parte messe per iscritto, che integra nella sua narrazione. Ricorre probabilmente alle Vite dei filosofi greco-romani come modello, e racconta quella di Gesù come la vita di un profeta itinerante ebreo che finisce perseguitato. L’influenza delle aretalogie ellenistiche vi ha forse anche svolto un ruolo, vista la preponderanza dei miracoli nel corso del suo ministero in Galilea; si tratta quindi di una predicazione per atti! Ben presto questo racconto creativo è stato esso stesso preso come modello; oggigiorno è riconosciuto come una delle fonti dirette di Matteo e Luca che, adottando diffusamente la sua trama narrativa, l’hanno amalgamato a un tesoro di sentenze provenienti da un’altra tradizione. Benché sia un anello nella storia di una trasmissione, questo primo vangelo è anche un’opera completa e a sé stante, un avvenimento della scrittura, un atto di significazione e di convinzione. La vita e la morte di Gesù che vi vengono raccontate parlano al presente della comunità che ne è destinataria; sono evocate nella loro forza inauguratrice e acquisiscono il valore di racconto fondante. Il cammino dei discepoli, messi alla prova sui passi del loro maestro, così come gli incontri inattesi con personaggi episodici trovano eco nel dubbio e nella fede dei lettori, i quali a loro volta proseguono nel cammino sapendo di essere stati preceduti.
2.1.2 Struttura
L’organizzazione d’insieme non si lascia facilmente afferrare e sono stati individuati molti criteri per analizzare minuziosamente la materia e per mettere in evidenza i modi più significativi in cui si articola il racconto:
a) Lo studio del quadro spaziale permetterebbe di distinguere, dopo il preludio lungo il Giordano (1,1-13), tre momenti: il ministero in Galilea, con i suoi passaggi in territorio pagano (1,14 - 9,50); la salita a Gerusalemme (10,1-52); il ministero e la Passione a Gerusalemme, con l’apertura pasquale sull’appuntamento in Galilea (11,1 - 16,8)1. Più che attraverso un preciso percorso geografico che rimanderebbe a un referente storico, le figure spaziali che strutturano il racconto sono cariche di un simbolismo che disegna nel mondo della narrazione una topografia teologica.
Le grandi immagini del deserto, del mare, del cammino, della montagna, che evocano un grande numero di racconti veterotestamentari, ma anche le più quotidiane come la casa o la porta, contribuiscono ad annunciare la venuta di Dio fra gli uomini nel suo suscitare spostamenti, sorprese e prove. Si addentrano in un intrico di significati nei quali è possibile avvicinarsi alla coerenza di tali immagini mediante i giochi di opposizione e di mediazione che percorrono il racconto. Così Elizabeth S. Malbon ha studiato lo spazio narrativo2 per capirne il significato mitico e tramite esso avvicinarsi allo scopo del vangelo, riflesso nel suo finale aperto (16,8); ha messo in evidenza un duplice finale del racconto, come Passione di Gesù (capp. 14 - 16), ma anche come passione della comunità (il cap. 13, apocalittico) con le figure “a cavallo” tra l’una e l’altra che mantengono, mai risolta, la tensione della buona novella: il cammino sul quale Gesù precede i suoi (16,7) e la soglia dove i credenti devono aspettare vegliando (13,37).
b) Uno studio particolare dei rapporti tra i personaggi definirebbe anche tre tappe, dopo l’incontro tra Gesù e Giovanni Battista (1,1-13): i rapporti di Gesù con i suoi discepoli, distinti dalla folla e dagli avversari (1,14 - 6,6); Gesù e l’incomprensione dei suoi discepoli riguardo alla sua missione, poi riguardo alla sua Passione annunciata (6,6 - 10,52); i conflitti a Gerusalemme, l’abbandono dei discepoli, fino alla fuga delle donne al sepolcro (11,1 - 16,8).
Nello schema del vangelo che chiude il suo commentario con uno sguardo riepilogativo, E. Schweizer ha messo in evidenza il motivo della cecità; questo cristallizza il conflitto quando alla chiamata risponde il rifiuto3. La cecità scandisce, infatti, tutto il racconto e corrisponde agli ostacoli incontrati dalla rivelazione di Dio sotto le sue diverse forme e ai malintesi che essa suscita; nell’ordine abbiamo: la cecità dei farisei di fronte all’autorità di Gesù, del popolo di fronte ai suoi miracoli, dei discepoli stessi di fronte all’apertura ai pagani. In seguito, alle due estremità del cammino verso Gerusalemme, cammino che imbocca la svolta della Passione annunciata chiaramente e che inizia da una nuova chiamata a seguirlo [Gesù], è necessario che Dio stesso apra gli occhi ai ciechi (8,22-26 e 10,46-52): senza miracolo, non c’è possibilità di seguirlo, non c’è significato intelligibile! Infine, il passaggio attraverso la spoliazione della croce si apre al sepolcro, dove Gesù non c’è, verso l’appuntamento in Galilea dove si è chiamati a seguirlo per una visione autentica: “non è qui, vedete […], è là che lo vedrete” (16,6).
c) Uno studio dello sviluppo del dramma, incentrato sull’identità di Gesù, farebbe piuttosto distinguere due insiemi dopo il riconoscimento della voce di Dio al battesimo (1,1-13): l’identità segreta e l’incomprensione dei discepoli (1,14 - 8,26); la rivelazione, dalla confessione di Pietro a Cesarea a quella del centurione romano ai piedi della croce, confermata dal sepolcro vuoto (8,27 - 16,8).
In questa prospettiva, ispirata al tempo stesso da modelli di composizione retorica e drammatica del mondo greco-romano, Benoît Standaert ha riconosciuto, tra prologo (al battesimo) ed epilogo (al sepolcro) tre componenti4: la narrazione propriamente detta, cioè l’esposizione dei fatti, con l’inizio del ministero di Gesù dove l’azione si fa intricata (1,14 - 6,13; al centro il discorso in parabole, in forma velata, condensa il significato del racconto); poi, paragonabile all’argomentazione, la sequenza che riporta le opinioni sull’identità di Gesù, messe alla prova con la moltiplicazione del pane, poi con gli annunci della Passione (6,14 - 10,52, dove 8,27 - 9,13 segna il centro dell’intero vangelo); infine, la soluzione a Gerusalemme (11 - 15). Questa percezione – basata su una fine osservazione delle correlazioni interne del racconto – si collega a un’ipotesi sulla sua funzione esterna, nella comunità: si tratterebbe di una narrazione per la festa di Pasqua, una haggadah cristiana che ricorda il “passaggio” di Gesù fra i suoi e la sua ultima Pasqua, la notte in cui fu consegnato; la sua lettura avrebbe preparato il battesimo, all’alba, dei nuovi convertiti, di cui è stata inserita un’immagine nel racconto: il giovane nudo, coperto solo da un lenzuolo, giovane che ritroviamo il mattino di Pasqua nel sepolcro aperto, vestito di una veste bianca (14,51-52 e 16,5).
Da questa diversità si può concludere allo stesso tempo che nessun filo permette di mettere in evidenza tracce di tagli veramente netti nell’insieme del racconto, ma anche che tutte le proposizioni convergono a una svolta con la confessione di Cesarea (8,27-30): prima, gli atti d’autorità, ma il segreto e la comunicazione per parabole; dopo, gli annunci espliciti, ma il cammino del servizio così difficile da capire a causa della sofferenza. Le transizioni si sviluppano per mezzo di racconti, come le guarigioni di ciechi, le quali potrebbero inserirsi altrettanto bene nell’insieme che si accingono a concludere quanto in quello seguente che introducono.
Schema del Vangelo secondo Marco
Prefazione (1,1-13): La venuta di Gesù preparata al Giordano
La voce di Dio tramite la voce delle Scritture (1,1-3); la proclamazione del Battista (1,4-8); il battesimo di Gesù (1,8-11); le tentazioni nel deserto (1,12-13)
L’AUTORITà DEL FIGLIO DI DIO
I primi inizi (1,14 - 3,35)
1,14-15 La proclamazione di Gesù in Galilea: il tempo è compiuto, il Regno è vicino
1,16 - 3,35 Vocazioni
La vocazione di due coppie di pescatori (1,16-20); primo giorno di guarigioni e partenza per altri luoghi (1,21-45); controversie: guarigioni e pasti che fanno crescere la contestazione (2,1-3,12); elezione dei Dodici e familiari (3,13-35)
Le traversate in barca (4,1 - 8,21)
4,1 - 6,13 Parabole e guarigioni
Giornata delle parabole: la moltiplicazione del seme (4,1-34); la traversata in tempesta (4,35-41); sull’altra riva, un uomo esce dai sepolcri (5,1-20); un capo della sinagoga perde sua figlia (5,21-24 e 35-43); una donna perde sangue (5,25-34); rifiuto della famiglia, invio in missione dei Dodici (6,1-13)
6,14 - 8,21 I pani nel deserto e le briciole
La passione del Battista (6,4-29); prima moltiplicazione dei pani (6,30-44); il cammino sull’acqua (6,45-56); il puro e l’impuro (7,1-23); le briciole per i cagnolini (7,24-30); guarigione di un sordomuto (7,31-37); seconda moltiplicazione dei pani (8,1-10); un solo pane nella barca ovvero i discepoli ciechi (8,11-21)
IL SERVIZIO DEL FIGLIO DI DIO
Il cammino verso Gerusalemme (8,22 - 10,52)
Il cieco di Betsaida (8,22-26); la confessione di Cesarea (8,27-30)
Primo annuncio della Passione (8,31-33)
Esortazione a portare la propria croce (8,34 - 9,1); il Figlio di Dio trasfigurato (9,2-13); il ragazzo epilettico (9,14-29)
Secondo annuncio della Passione (9,30-32)
Il più grande e lo storpio (9,33-50); il matrimonio, i bambini, il ricco (10,1-31)
Terzo annuncio della Passione (10,32-34)
Giacomo e Giovanni nella gloria (10,35-45); il cieco Bartimeo sul cammino (10,46-52)
La Passione a Gerusalemme (11 - 16)
11,1 - 13,37 Ingressi e uscite (dalla Città)
L’ingresso regale (11,1-11); il fico senza frutto e il Tempio senza preghiere (11,12-25); controversie al Tempio (11,27 - 12,37); l’elemosina di una vedova al Tempio (12,38-44); il discorso apocalittico (13)
14,1-52 L’arresto
L’unzione del corpo (14,3-9); Giuda ovvero il prezzo del tradimento (14,1-2 e 10-11); l’ultima cena (14,12-31); la preghiera del Getsemani (14,32-42); l’arresto, il bacio di Giuda, l’abbandono dei discepoli, sequela del giovane nudo (14,43-52)
14,53 - 15,20 I processi
Il processo giudaico e lo scherno: “Indovina, profeta!” (14,53-65); il “processo” di Pietro e il rinnegamento (14,66-72); il processo romano e lo scherno: “Salve, re dei Giudei!” (15,1-20)
15,21-47 La morte
La croce e lo scherno: “Salva te stesso se sei il Messia!” (15,21-32); il grido sul Golgota, lo squarcio al Tempio, la confessione di fede del centurione (15,21-32); la sepoltura (15,42-47)
Postfazione (16,1-8)
16,1-8 Il racconto del silenzio: le donne al sepolcro e l’appuntamento in Galilea
(16,9-20) (Una continuazione aggiunta: il racconto della proclamazione)
2.1.3 Il contenuto sequenza dopo sequenza
1,1-13 Dio è il primo a prendere la parola nel racconto, parla tramite le Scritture, in un testo eterogeneo attribuito a Isaia. Il vangelo inizia così come citazione e libera interpretazione delle Scritture giudaiche. Con Giovanni, descritto con i tratti del profeta Elia, e con il suo battesimo di conversione iniziano gli spostamenti: Gerusalemme e tutta la Giudea si recano nel deserto, come in un non-luogo, presso il fiume Giordano, che segna una frontiera. Anche Gesù vi giunge, vi è battezzato e acclamato come figlio a opera di Dio sotto i cieli aperti, nel tempo escatologico. Vi riceve lo Spirito che ben presto lo espone alla tentazione. Viene evocata la lotta con il demonio per una corretta comprensione della filiazione, ma non viene raccontata, come se il racconto la lasciasse in bianco, chiamando altre sequenze narrative a riempire il vuoto, in cui Satana prenderà sembianze umane: con Pietro a Cesarea che rifiuta la croce (8,31-33), col desiderio di Gesù nella notte del Getsemani (14,32-42), con le tre sfide, lanciate ai piedi della croce, a scendere per salvarsi (15,29-32).
1,14 - 3,35 Imprigionato Giovanni, Gesù prende la fiaccola della proclamazione, il cui oggetto è il vangelo di Dio offerto per essere creduto. Credervi implica una conversione. La duplice chiamata di due coppie di pescatori sulla spiaggia l’attualizza ben presto; essi lasciano i legami familiari ed economici per seguirlo e diventare, sulla base della sua sola parola, pescatori di uomini. La barca abbandonata avrà altre funzioni nel racconto.
Una giornata di guarigioni (1,21-45) spiega, in pubblico e in privato, la dimensione dell’autorità di Gesù. La sua pratica è acclamata fin dal mattino nella sinagoga di Capernaum, come un insegnamento nuovo, e si diffonde fino all’alba successiva in un altro luogo, dove i suoi discepoli lo cercano. Alle frontiere della morte e dei tabù un lebbroso va da lui e lo supplica; quando Gesù lo tocca, l’emarginato viene reinserito nell’ambito religioso e sociale, ma è il suo guaritore a prenderne il posto ai margini, ove la sua fama lo condanna.
Il ritorno a Capernaum apre una serie di controversie (2,1 - 3,6) costruite in sequenza, messe in scena come guarigioni e cene che portano in seno la metafora del vino novello al tempo delle nozze. Il perdono di Dio che Gesù attualizza sulla Terra, la libertà per la quale agisce e parla e che concede ai suoi discepoli, fanno sorgere resistenze e alimentano la contestazione. Questo porta alla decisione, presto maturata, di sopprimere colui che riorienta la creazione di Dio e le istituzioni che la celebrano (come il sabato), in direzione dell’essere umano.
4,1 - 6,13 Una sequenza di parabole e di miracoli si inserisce fra due passi (3,13-35 e 6,1-13) nei quali l’incomprensione della famiglia di Gesù contrasta con l’elezione e poi con l’invio in missione della “famiglia” dei dodici apostoli. Una giornata di parabole (4,1-34), enunciate a distanza dalla barca, traduce in immagini il Regno di Dio. La loro interpretazione rivela due posizioni d’ascolto che rendono pressante la scelta: per quelli che ne restano al di fuori, il linguaggio parabolico è mancanza di chiarezza ed esclusione dal perdono; per quelli che ne sono coinvolti, ai quali “è stato dato il mistero del Regno” (4,11), si apre una via d’intesa che permette di partecipare alla produzione stessa delle parabole (“a che paragoneremo il Regno?”, 4,30). Calata la sera, una prima traversata del mare è segnata da una tempesta e l’assenza del maestro addormentato (4,35-41) è sentita con angoscia. Poi tre guarigioni, l’ultima delle quali è una risurrezione, sull’una e sull’altra riva del lago, quella pagana e quella giudaica, ristabiliscono il genere umano nella sua salute e dignità, uomini, donne e bambini (cap. 5).
6,14 - 8,21 L’arresto e la morte del Battista offrono un’immagine ridotta e anticipatrice della Passione (6,14-29): vengono precedute dall’invio dei discepoli, come se missione e persecuzione procedessero contemporaneamente. Niente riposo al ritorno dei discepoli, ma pasti per altre persone, il che comprende la sequenza dei pani (6,30 - 8,21). Ciascuno dei racconti della moltiplicazione miracolosa, per i giudei e poi per i pagani, è seguita da una traversata del mare; la sovrabbondanza della distribuzione sembra schiudere nuovi passaggi, ma la comprensione dei discepoli è qui messa alla prova. Quando Gesù cammina sulle acque e si rivela con ciò nella sua divinità (6,45-52) si può pensare a un racconto di apparizione, tanto più che questo manca nel finale, nella sobrietà pasquale propria di Mc. Tra le due moltiplicazioni dei pani, Gesù traspone l’antitesi del puro e dell’impuro dal piano rituale a quello etico (7,1-23); attualizza due origini reali dei comportamenti: la parola di Dio, come esteriorità che interroga e non si lascia ridurre alle tradizioni umane e il cuore dell’essere umano, profonda interiorità, fonte di ogni comportamento. Ma è una donna straniera che oltrepassa la frontiera dell’impurità; riprende per conto suo la questione dei resti del pasto come briciole che cadono dal tavolo e, scuotendo il quadro di riferimento di Gesù stesso, con una parola liberatrice, fa della propria figlia impura una figlia del regno di Dio (7,24-30).
8,22 - 10,52 Proteso tra due guarigioni di ciechi, il cammino che volge verso Gerusalemme è dunque scandito da tre annunci della Passione e della risurrezione. Malgrado un “è necessario” (‰ÂÖ) che riporta l’avvenimento nelle mani di Dio, gli annunci segnano con ombre e angoscia il percorso dei discepoli di un lato oscuro e angosciato. Il primo (8,31) si basa sulla confessione di Pietro a Cesarea: fa di quel cammino, lungo il quale portare la propria croce, un’esigenza per ogni essere che desidera seguirlo e per il quale la vita e la morte si rivelano nel loro vero valore. Alla voce di Pietro, sopra la mischia, che ha riconosciuto il Cristo (8,27-30), fa dunque eco la voce di Dio sulla montagna della trasfigurazione, che riconosce suo Figlio e invita ad ascoltarlo (9,2-10). Ma Gesù che è apparso mentre parlava con Elia e Mosè, scende solo con i suoi discepoli fra gli uomini; il candore della sua veste non brillerà che nella tomba, dopo aver attraversato la morte, rivestendo un giovane (16,5). Ai piedi del monte Gesù guarisce la malattia di un figlio degli uomini, il ragazzo epilettico, posseduto da uno spirito muto (9,14-29); la figura del padre, che esce fra la folla per portare il suo lamento davanti a Gesù, permette al vangelo di costruire la sua più mirabile immagine di fede che invoca: “Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità” (9,24).
Il secondo annuncio della Passione (9,30-32) è seguito da riflessioni sulla condizione del discepolo; il bambino, nella sua capacità di accogliere, è l’immagine stessa dell’invitato al regno di Dio, mentre le ricchezze, materiali o di perfezione religiosa, sono di ostacolo. In una dichiarazione paradossale, Gesù collega allora l’esigenza più radicale (vendere tutto per seguirlo) e la gratuità più assoluta (solo Dio può dare accesso al Regno). Il terzo annuncio (10,32-34) la rafforza: assicurare il privilegio di sedere con lui nella gloria non spetta neanche a Gesù, ma far riacquistare la vista, questo può concederlo; alla sua destra e alla sua sinistra ci saranno, d’altra parte, due ladroni sulle croci (15,27) e non due discepoli nella gloria (10,37).
11 - 13 L’ingresso regale e riverito del Figlio di Davide nella sua città, avvenuto a tarda ora, si chiude con uno sguardo che osserva ogni cosa nel Tempio. Il fatto che la casa di Dio non offra più preghiere per tutte le genti come un fico sterile, fuori stagione, non offre frutti per la fame del Messia, condanna l’uno e l’altro alla distruzione. Il Tempio, per prima cosa purificato del commercio, diventa teatro di una serie di controversie nelle quali l’autorità di Gesù viene messa alla prova; Gesù però fugge le insidie e riduce i suoi avversari al silenzio quando accoglie alla soglia del Regno uno scriba che ha saputo rispondere (11,27 - 12,37).
Siccome gli scribi divorano le case delle vedove e il Tempio divora i loro pochi denari, Gesù annuncia la caduta di questa sontuosa costruzione in un discorso apocalittico (13). La predicazione del vangelo, però, deve precedere la venuta del Figlio dell’uomo, evocata in un primo tempo come il cataclisma di un parto cosmico, poi più naturalmente come il passaggio dalla primavera all’estate, che non si calcola ma si attende vegliando.
14 - 15 La Passione si prepara quindi con dei pasti in cui vengono a mescolarsi la ragione, la decisione e la rivelazione del tradimento di Giuda. Il primo, a Betania (14,39), è concentrato sul gesto inopportuno di una donna che anticipatamente, a sua insaputa, offre a Gesù l’unzione per la sepoltura che non avverrà nel sepolcro, per mancanza del corpo; la bontà del suo gesto è promessa a futura memoria. Il secondo pasto a Gerusalemme è l’ultima cena che Gesù condivide con i suoi discepoli (14,22-25); vi distribuisce il pane spezzato come suo corpo, il vino versato come suo sangue, con una parola che non ordina di ripetere i gesti in sua memoria, come nella tradizione di Paolo e di Luca, bensì scava il vuoto fra un “mai più” e un “fino al giorno ove” berrà del vino nuovo nel regno di Dio.
L’annuncio a Pietro del suo rinnegamento non impedisce al discepolo né di cadere nella tentazione del sonno tre volte nel Getsemani, né di rinnegarlo tre volte durante il processo, che così diventa anche il suo processo. Ma il ricordo di quanto detto anticipatamente, evocato dal canto del gallo, dà adito al pianto e inscrive l’angoscia dell’infedeltà nella tensione dell’adempimento.
è nell’angoscia di una notte di preghiera che Gesù fa coincidere la sua volontà con quella del Padre. Nei due processi che seguono, giudaico e romano, è lui stesso a fornire il motivo per condannarlo come bestemmiatore; poi il suo silenzio stupisce Pilato, che vorrebbe lasciarlo andare, ma non riesce a sciogliere il nodo della gelosia dei capi dei sacerdoti e dell’eccitazione della folla. Attraverso le domande e la derisione, i processi permettono anche al racconto di mettere ancora una volta in gioco il problema dell’identità di Gesù: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?” (14,61); “Vedrete il Figlio dell’Uomo…” (14,62); “Indovina, profeta!” (14,65); “Sei tu il re dei Giudei?” (15,2); infine, quando i soldati lo vestirono di porpora e lo incoronarono di spine, “Salve, re dei Giudei!” (15,18).
Dopo tre ore di tenebre scese a mezzogiorno, Gesù muore solo, rivolto verso Dio in un ultimo “perché?”. Un giovane, figura propria del racconto di Mc., volle seguirlo quando Giuda lo tradì e i discepoli lo abbandonarono; ma, quando fu preso contemporaneamente a Gesù, lasciò cadere il lenzuolo che lo vestiva e fuggì nudo (14,51-52). Per mantenere un legame vivente, non resta altro che lo sguardo da lontano delle donne, prima sulla croce, poi sulla tomba.
16,1-8 Il vangelo racconta il mattino pasquale senza temere che non si approdi a nulla. Passato il sabato comincia il tempo nuovo: il levar del sole, la pietra già rotolata, l’assenza del corpo, le vivide parole di un giovane che rievoca l’appuntamento da ricordare, all’esterno, ai discepoli. Le donne scapparono dal sepolcro, tremanti e stupite; per la paura non dissero nulla a nessuno.
2.1.4 Il problema del finale
Una pluralità di finali:
• il finale corto (16,1-8) chiude con: “Esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro, perché erano prese da tremito e da stupore; e non dissero nulla a nessuno, perché avevano paura”
• il finale corto ritoccato con brevi aggiunte: “ Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano prese da tremito e da stupore […] perché avevano paura. Raccontarono in breve ai compagni di Pietro ciò che era stato loro annunciato. In seguito, Gesù stesso fece portare tramite loro, da oriente fino a occidente, la proclamazione solenne e incorruttibile della salvezza eterna”
• il finale lungo (16,1-8 + 9-20)
• il finale doppiamente lungo (16,1-8 + aggiunta breve + 9-20)
• il finale con interpolazione del loghion di Freer tra i vv. 14 e 15: “Questi dissero in loro difesa: “Questo secolo di empietà e di incredulità è sotto il potere di Satana che non permette che la verità e la potenza di Dio siano ricevute dagli spiriti impuri; per cui rivela fin da ora la tua giustizia”. Dicevano questo a Cristo e il Cristo rispose loro: “Il termine degli anni del potere di Satana è compiuto, ma si avvicinano altre cose terribili. E sono stato condannato a morte per coloro che hanno peccato affinché si convertano alla verità e non pecchino più, in modo che ereditino la gloria, la giustizia, la gloria spirituale e incorruttibile che si trovano nel cielo””
Un’analisi del vocabolario e dei motivi dei versetti 9-20 del capitolo 16 e della loro parentela con altri scritti del Nuovo Testamento, o posteriori, ha permesso di datare questa parte al secondo terzo del II secolo, come un documento della missione cristiana nel contesto ellenistico5. Il vangelo nella sua forma originale terminava in 16,8, che ha per ultima parola la paura delle donne che spiegava la loro fuga dal sepolcro e il loro silenzio, oppure includeva un’altra conclusione, accidentalmente persa o volontariamente mutilata? Da parte della tradizione manoscritta, due grandi onciali del IV secolo, Sinaitico () e Vaticano (B), terminano in 16,8. Un manoscritto della Vetus latina, il codice k del IV secolo, omette il silenzio delle donne per riportare un’aggiunta breve. La maggior parte degli onciali, così come la Vulgata, riproducono il testo lungo (1-8 + 9-20). Questo esiste in maggior misura sotto una forma che integra le due aggiunte (attestate da alcuni manoscritti) e con l’inserimento di un loghion tra i versetti 14 e 15, che spiega l’incredulità dei discepoli (attestata dal codice di Freer, W, del V secolo).
L’ipotesi che il finale primitivo fosse corto prevale oggi su quella di una mutilazione del testo. Si adatta bene alla maniera di questo vangelo di sospendere più di una volta un episodio sull’indicazione di un’emozione. Se il testo lungo delinea il tragitto che va dal sepolcro e dal suo silenzio alla parola proclamata ovunque nel mondo, e se trasforma la paura in segni che accompagnano i credenti, al contrario il testo corto è ricco di rimandi: l’appuntamento in Galilea rimanda all’inizio del racconto, dove Gesù appare in Galilea, per ricominciare una lettura del vangelo; il silenzio rimanda alla parola che lo ha preceduto, alla confessione del centurione che accoglie la rivelazione, non delle apparizioni pasquali, ma della croce stessa (15,39).
2.2 Circostanze e contesto storico
di produzione
2.2.1 L’autore
Il Vangelo secondo Marco è un’opera volutamente anonima. Mentre l’autore ha ricevuto una predicazione di Gesù e su Gesù, che ha tradotto in un racconto di vita, la sua personalità si è cancellata di fronte all’autorità del messaggio da trasmettere, il vangelo. Il suo racconto non presenta nessun “io” che parla, a differenza della dedica lucana (Lc. 1,1-4); esso viene solamente presupposto dall’apostrofe al lettore che si inserisce nel discorso apocalittico (“che il lettore capisca”, 13,14). L’autore non esprime nemmeno alcuna intenzione, a differenza della conclusione giovannea (Giov. 20,30-31): questa deve quindi essere dedotta dalla prospettiva dell’opera stessa.
Prendere la misura di tanta discrezione pone nei giusti termini l’interrogativo sull’identità di Marco. La formula “secondo Marco” (Εùa ŞżÚÎÔÓ), un nome di origine romana molto diffuso, è secondaria; attestata fin da Ireneo (fine del II secolo), riflette nuove condizioni di ricezione. Per collocare questo racconto, tutta la tradizione patristica si è poggiata sulla testimonianza di Papia, vescovo di Gerapoli in Frigia (intorno al 125), riferito da Eusebio di Cesarea (Storia Ecclesiastica III,39,15). Commentando l’affermazione di Giovanni, un presbitero, Papia qualifica Marco interprete di Pietro (ëÚìËÓ¢ù‹, ma in che senso? come traduttore? come commentatore?), che ha preservato la memoria delle parole e degli atti del Signore (Ű• âìÓËìfiÓ¢ŰÂÓ: la tradizione non era più direttamente accessibile?), senza omissioni né menzogne, scrivendo senza ordine ma con esattezza (la sua memoria era selettiva o priva di errori?). A fianco dei problemi che solleva, una tale attestazione appare apologetica; ha come scopo quello di riallacciare i vangeli, anche indirettamente, alla figura di un apostolo e non può dunque essere presa alla lettera. Il contenuto del racconto stesso fa scivolare lo sguardo dell’autore verso i destinatari del vangelo: questo si spiega molto più come risposta ai problemi delle comunità alle quali si rivolge che come testimonianza oculare diretta. Il riferimento a Papia ha tuttavia sostenuto l’ipotesi che Marco avesse scritto a Roma dopo la morte di Pietro.
Nel Nuovo Testamento, è in I Pie., scritto esso stesso pseudoepigrafico, che Marco è associato a Pietro come “mio figlio”, i cui saluti vengono inviati dall’autore della lettera insieme a quelli della comunità di Roma (5,13). La tradizione ecclesiale ha identificato Marco o Giovanni detto Marco, un giudeo-cristiano della comunità di Gerusalemme, discepolo di Pietro di cui parlano gli At. (12,12), e cugino di Barnaba, secondo Col. 4,10; Giovanni detto Marco fu compagno di missione di Paolo e Barnaba a partire da Antiochia, fino alla separazione sulla quale Paolo rifiuterà di tornare (At. 13,3; 15,37-39). Le Pastorali lo menzionano come associato di Paolo (II Tim. 4,11). Filem. 24 segnala Marco vicino a Paolo fra altri collaboratori, tra cui Luca.
L’esegesi ha discusso queste relazioni. In mancanza di una teologia di Pietro come confronto, poiché non si ha di lui alcun testo diretto, si è osservato l’importante ruolo che questo discepolo svolge nel racconto di Marco. Ma in che cosa l’immagine che se ne ricava presupporrebbe il contatto diretto di un discepolo o di un interprete? Le imprecisioni geografiche del racconto sono state considerate anche in favore di una certa distanza del vangelo in rapporto a una tradizione del cammino in Galilea legata a Pietro. Ma è soprattutto la molteplicità delle tradizioni presenti in Mc., nella loro diversità, che scioglie i nodi e rende più complessa la questione delle eredità. D’altra parte, alcune aperture teologiche del vangelo possono entrare in risonanza con la predicazione del Vangelo di Paolo: la commensalità con dei pagani (si confronti, per esempio, Mc. 7,24-30 e Gal. 2,11-21), la comprensione della croce come luogo decisivo della rivelazione di Dio (Mc. 15,39) dove la sua potenza si dimostra perfetta nella debolezza, come dice Paolo per sé stesso (II Cor. 12,9). Ma la questione più problematica dei paolinismi nel linguaggio di Mc. è stata risolta in maniera piuttosto negativa dalla critica; se ci sono dei possibili ravvicinamenti, è senza dubbio più produttivo pensarli nel ventaglio di espressioni singolari delle questioni decisive stesse del cristianesimo nascente, che si fecondano vicendevolmente alla lettura, piuttosto che in termini di dipendenza.
Dunque, non conosciamo l’autore in altro modo se non tramite il suo scritto e da ciò che possiamo dedurre dalla sua lingua, dal suo stile, dal suo rapporto con lo spazio e il tempo, dal suo lavoro letterario e dalla sua prospettiva teologica.
è stato sottolineato come il Vangelo secondo Marco sia uno scritto di lingua greca contaminato da semitismi, vicino alle tradizioni orali aramaiche, dal bagaglio lessicale povero, dalla sintassi elementare, che giustappone le proposizioni anziché gerarchizzarle (paratassi), che fa largo uso del presente storico e non evita certe manchevolezze nella scrittura. Al giorno d’oggi si precisa che questi tratti non lo discreditano, bensì lo iscrivono a buon diritto nel campo riconosciuto della letteratura popolare ellenistica. Certamente, nella sua scrittura, il vangelo si è rivestito di modestia, ma reca al suo interno anche una vivacità poetica che risalta grazie a un’espressione non addolcita e a una forma lasciata spesso grezza. Gli approcci attuali, sensibili all’unità dell’opera e alla ricchezza delle sue correlazioni interne, scoprono un tessuto molto lavorato, una ingenuità piuttosto elaborata che accorda lo stile al contenuto.
2.2.2 Il luogo
La tradizione, e già prima Clemente d’Alessandria, ha collocato il vangelo a Roma. Nulla nel testo permette di confermarlo, né di confutarlo. Sono stati individuati alcuni latinismi (soprattutto in termini militari o monetari, come la traduzione di “lepton” in quadrante di soldo 12,42), ma all’epoca questi sembravano essere entrati nella lingua corrente greco-ellenistica. A monte, la collezione delle diverse tradizioni che Marco ha ereditato e, a valle, il fatto che Luca e Matteo l’abbiano così rapidamente conosciuto e riconosciuto nella sua autorità, al punto tale da utilizzarlo come una delle loro fonti comuni, fanno propendere per un centro urbano ed ecclesiale di un certo lustro. Questo vale per Roma, ma non solo; sono stati anche proposti l’Egitto con Alessandria e la Siria con Antiochia. Alcuni ricercatori hanno anche sostenuto l’idea di un’origine in Galilea, a causa dell’interesse del vangelo per la Galilea stessa – dove Gesù inizia a proclamare il vangelo, che si diffonde dappertutto e in cui il Risorto attende i suoi –, e anche a causa della sua fedeltà a un’antica tradizione che viene seguita localizzando i sadducei nel Tempio e gli scribi a Gerusalemme come prima del 70, mentre Matteo e Luca allentano i legami con le prime comunità palestinesi. Nonostante tutto, Roma rimane l’ipotesi privilegiata.
2.2.3 La data
Per quanto riguarda la datazione, l’interesse verte sul cap.13, il grande discorso che annuncia la fine dei tempi a partire dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme. Fa pensare a un discorso di commiato, che dà al precario presente delle comunità alle quali il vangelo si rivolge lo status di annuncio profetico del loro Signore. Dalle informazioni che vi si possono cogliere, questo testo riflette un periodo tormentato: clima teso, profanazione del luogo santo (“quando poi vedrete l’abominazione della desolazione posta là dove non deve stare”, v. 14), necessità di proclamare il vangelo alle nazioni (v. 10), comparizione davanti ai tribunali (v. 11), rivendicazioni messianiche (vv. 5-7; 22). Ma queste informazioni possono riferirsi alla prima guerra giudaica (66-70 a.e.v.), che si concluse con la presa di Gerusalemme da parte di Tito e con l’incendio del Tempio, più che rimandare all’escatologia e a motivi apocalittici secondo gli stereotipi biblici.
Quale parte riconoscere a ciascuno di questi aspetti? Bisogna preferire la focalizzazione sull’attualità o sulla parusia? L’invito a vegliare rivolto a tutti con il quale si chiude il discorso è senza dubbio pressato dagli eventi di guerra. Ma l’allusione a questa si limita al conflitto palestinese, oppure comprende anche un’eco dei disordini di Roma negli stessi anni, con l’incendio della città di cui Nerone addossa la colpa ai cristiani, e la guerra civile che segue la morte dell’imperatore? Il segnale d’allarme che il martirio di Pietro ha forse rappresentato per i credenti può aver spinto a mettere per iscritto le tradizioni su Gesù. Di conseguenza, la data del 70, in un clima di effervescenza apocalittica, è quella maggiormente accreditata, poco prima o poco dopo, secondo che si supponga la caduta di Gerusalemme imminente o già avvenuta. Le allusioni alla violenza di questo epilogo sono meno nette che in Mt. (per esempio, 22,7), cosa che potrebbe fare pensare al prima.
2.2.4 I destinatari
Per quanto riguarda l’origine religiosa dei destinatari, a differenza del Vangelo di Matteo, è l’assenza di riflessioni profonde sulla Torah che fa pensare a dei pagano-cristiani. L’importanza degli spostamenti di Gesù nei territori limitrofi di Tiro e di Sidone, di Cesarea di Filippo, e più direttamente sull’altra sponda del Lago di Galilea, in Decapoli, avvalora quest’ipotesi. Viene puntualmente confermata dalla necessaria traduzione delle usanze giudaiche sconosciute ai lettori (7,1-4, per i rituali di purificazione). Tuttavia l’imprecisione storica di queste stesse spiegazioni, in generale, implica che l’autore stesso sia pagano-cristiano: avendo origine giudaica, lo si può pensare a una certa distanza dalle autorità religiose e dalle istituzioni del suo tempo, cosa che gli lascia una qualche elasticità di visione. Il mutamento dei costumi, d’altra parte, può anche essere spiegato dal punto di vista polemico dei dibattiti messi in scena dalla narrazione. Si delinea così per l’autore la figura di un giudeo-cristiano della seconda generazione, che parla greco, aperto alla missione universale, che scrive per dei pagano-cristiani, se non proprio di Roma, almeno appartenenti all’occidente dell’impero.
Non essendo possibile, per questo primo vangelo, avere una visione sinottica con alcun altro testo anteriore, non si può ottenere un’immagine teologica della comunità recettrice sulla base di ritocchi, spostamenti, omissioni e aggiunte, come sarà il caso di Mt. e Lc. a partire da Mc. Rimedia parzialmente a ciò il lavoro sulle fonti, che restano in ogni caso ipotetiche, e soprattutto l’intenzione che si ricava dall’opera stessa. Ma come stabilire, per esempio, se la difficoltà dei discepoli nel comprendere la persona e gli interventi di Gesù ha per strategia il guidare la fragilità di una comunità provata fortificandola con l’esempio delle origini, oppure, al contrario, lo scopo è di spostare dei riferimenti già troppo stereotipati, di destabilizzare delle usanze troppo facili, compresa la confessione di fede (1,24; 5,7) o le parole del perdono (2,9)?
Dal racconto si possono ricavare alcuni tratti suggestivi di un vissuto storico. Si profila l’immagine di una comunità in cammino: questa si libera dalla febbre apocalittica (13,6-8); prende le distanze dalle istituzioni giudaiche (per esempio, il sabato, 2,27-28); si rivolge agli altri, i pagani, ispirandosi alla libertà di Gesù che ha dovuto infrangere molte frontiere per rimettere tutti gli uomini al centro della creazione di Dio. Accetta consapevolmente la sua vita sradicata, itinerante, che attraversa le tempeste della storia e della fede. Nei pani che il Signore le dispensa – come fece Dio per il suo popolo durante l’esodo – la comunità trova sia accoglienza sia la forza di affrontare il cambiamento. Incoraggiata da momenti di meditazione nelle case in cui viene istruita, è spinta avanti, in cerca di un riconoscimento, soprattutto dall’interrogativo “ma chi è dunque Gesù?”. è proprio interrogandosi su di lui che risponde su se stessa. Modella il suo modo di scrivere e di leggere la propria storia, scava il solco del suo avvenire raccontando dove comincia la sua liberazione, che accoglie come una guarigione, come una risurrezione.
2.3 Composizione letteraria e teologica
2.3.1 I generi letterari
Se lo stile del vangelo nella sua composizione d’insieme racchiude qualcosa di incomparabile, i generi letterari dei suoi episodi particolari appaiono più evidenti. Essi sono stati recensiti dalla critica delle forme (Formgeschichte) e paragonati a quelli delle letterature sia giudaiche sia greco-romane (gli ex voto del tempio del dio guaritore Esculapio a Epidauro, per esempio, per i racconti di guarigione).
Le varie unità sono distribuite nella trama del racconto finale, per cui si possono distinguere:
a) Un grande racconto della Passione (capp. 14 - 16) è ritmato dai giorni che precedono la Pasqua, poi dalle ore che portano verso la morte. è preparato da tre annunci espliciti per bocca di Gesù, che scandiscono la salita a Gerusalemme e la interpretano come un’obbedienza cosciente del Figlio, che i suoi discepoli seguono ancora, seppure nell’incomprensione, e con crescente paura.
b) Numerosi racconti di guarigioni e di esorcismi costituiscono l’attività principale di Gesù in Galilea: diciassette miracoli particolari che rafforzano, tramite un riepilogo sintetizzante, tre sommari. Come atti di potenza (‰˘ÓżìÂè), indicano che la vita è un miracolo, che ci è data da Dio; un racconto della risurrezione ne porta l’espressione agli estremi (5,21-24.35-43).
c) Due serie di controversie con gli avversari – gli scribi, i farisei, i capi dei sacerdoti e gli anziani – occupano un posto significativo nei due spazi del ministero: la Galilea (2,1 - 3,6), poi Gerusalemme (11,27 - 12,37). Riprendendo il genere e i problemi dei dibattiti scolastici, stigmatizzano l’opposizione delle diverse autorità giudaiche al piccolo gruppo di Gesù e dei suoi discepoli.
d) La buona novella del Regno, che richiede prossimità nell’ascolto, prende anche la via indiretta del parlare in parabole. Raccolte soprattutto durante una giornata di discorsi in riva al lago, privilegiano le immagini della fecondità del seme (cap. 4), mentre un’altra parabola, pronunciata nel tempio di Gerusalemme, racconta la sostituzione del sangue versato con i sospirati frutti della vigna (12,1-12).
e) Alla vigilia della Passione, un lungo discorso dai tratti apocalittici (cap. 13) lega all’annuncio della distruzione del Tempio rappresentazioni della fine del mondo. Ma il genere letterario sembra piuttosto sovvertito dall’interno, poiché invece di riservare una rivelazione ad alcuni iniziati, il discorso li getta nel bel mezzo degli avvenimenti della storia; mette in guardia contro la fallacia di tutti i segni di riconoscimento, diffida anche gli angeli e il Figlio dal sapere tutto sull’ora della fine, e si apre nel finale a un richiamo rivolto a ognuno: vegliate!
2.3.2 Le fonti
L’autore del vangelo ha ereditato delle tradizioni che si possono rintracciare nel suo rimodellamento; è però difficile pronunciarsi con precisione sulla loro estensione e sul loro contenuto, così come è anche difficile ricostruire i contorni di un eventuale proto-Mc. Verosimilmente, questi ha talora beneficiato di fonti scritte e di materiale orale, di primi abbozzi provenienti dal giudeo-cristianesimo della Palestina e di altri più segnati dalla cultura ellenistica. Forse il nocciolo della narrazione era costituito da un racconto della Passione, per mezzo del quale le comunità commemoravano nella loro liturgia la morte e la risurrezione del loro Signore; intessuto di citazioni delle Scritture che evocano figure di giusti perseguitati, ha dato al vangelo la sua tensione drammatica. Per quanto riguarda le parabole, le controversie e i miracoli, sembra che la tradizione avesse già operato un lavoro di raggruppamento. Marco ha anche ripreso alcune sentenze isolate che ha mantenuto qua e là nonostante le circostanze le avessero contraddette (come la promessa che il Regno verrà prima della morte di certi ascoltatori di Gesù, 9,1), o che erano già state sviluppate in piccole collezioni (come il richiamo rivolto a tutti gli uomini di seguirlo al prezzo della propria vita, 8,34-38).
L’opera finale ha accentuato questi raggruppamenti, organizzando però il materiale in una trama, con un suo quadro spazio-temporale e attraverso un gioco di attori; ha anche sottoposto il racconto ad altri effetti di eco interne, che oltrepassano le frontiere dei generi letterari.
La dinamica essenziale della composizione di Mc. – che assicura una coerenza teologica alle tradizioni raccolte – è stata designata con il termine “segreto messianico”. Comprende l’ordine di mantenere il silenzio, impartito da Gesù a coloro che guarisce (1,44; 5,43; 7,36; 8,26) oppure ai suoi discepoli dopo una rivelazione (8,30; 9,9), e il tema dell’incomprensione dei discepoli (4,13.40; 6,50-52; 8,16-21 ecc.). Questi due motivi fanno della rivelazione una “epifania segreta”, secondo la bella formula, divenuta ormai classica, di Martin Dibelius. Alcuni autori vi associano anche la teoria delle parabole (4,10-12), l’insegnamento velato di Gesù che viene spiegato in particolare a “quelli di dentro”. La tesi del segreto messianico è stata formulata per la prima volta da William Wrede nel 19016. Ai suoi occhi, per la comunità delle origini, il segreto è il mezzo tramite cui riversare la sua fede pasquale nel Gesù risorto sulla vita del Gesù storico, dal momento che questi non aveva una conoscenza chiara della sua messianità. Quindi, se Gesù non ha detto di essere il Messia, è perché ha voluto differirne la divulgazione fino alla risurrezione e ha voluto mantenerne il segreto. Altri autori pensano che questa teoria non sia imputabile alla tradizione bensì alla riflessione teologica dell’evangelista.
2.3.3 Il lavoro letterario
e teologico
Mediante l’analisi dei racconti dei miracoli7 proposta da Cristophe Senft si può illustrare l’impatto del lavoro dell’evangelista sulle sue fonti, in un duplice movimento di rispetto e di ripresa critica. Senft suppone che la tradizione, influenzata dalla sensibilità ellenistica alla presenza del divino, vedesse in questi racconti un incontro liberatore che suscitava un’ammirazione stupefatta davanti all’autorità carismatica di Cristo; sembra che Gesù fosse percepito come un uomo divino (ıÂÖÔ àÓ‹Ú), e che i racconti dei suoi atti che attiravano le folle servissero alla propaganda missionaria. Il vangelo riserva una grande importanza a questi racconti, ma li reinterpreta in funzione del suo progetto teologico. L’evidenza del miracolo e la celebrazione del suo autore si trasformano in una serie di interrogativi. Per Marco, se è vero che il miracolo libera, rischia anche di assoggettare al liberatore; da qui i tratti nuovi di un Cristo che libera provocando delle fratture, portando la contestazione anche in seno alle immagini che l’uomo si è fatto della libertà di Dio. Le resistenze si esprimono nella volontà di far morire colui che fa vivere a questo prezzo. L’accesso alla conoscenza di “chi è in verità costui” viene problematizzato: a livello di volontà, mediante la presenza degli avversari che reclamano un segno dal cielo, anziché decifrare nella figura di Gesù il segno di Dio; a livello di possibilità, invece, mediante la figura dei discepoli che hanno difficoltà a capire; a livello del sapere, per mezzo degli spiriti immondi che possiedono e non si pongono domande, e mediante gli ordini di mantenere il silenzio la cui trasgressione, d’altra parte, non conduce le persone a un adeguato riconoscimento. L’ultimo miracolo, quello di cui Gesù è oggetto, ovvero la sua risurrezione per opera di Dio, lascia un sepolcro aperto ma vuoto: Gesù dona, si dona ma non si lascia trattenere.
Si è sottolineato a volte lo schematismo dei racconti dei miracoli (una medesima ossatura narrativa per la prima espulsione di un demonio nella sinagoga di Capernaum, 1,25-27; l’acquietamento della tempesta in mare, 4,37-41), e i loro tocchi vividi, a volte dai colori sgargianti (anche burleschi, se si pensa all’annegamento del branco di duemila porci trascinati dal demonio chiamato “Legione”, 5,11-13). A causa dell’intensità dell’espressione sia pure nella sua sobrietà, lo studio di un racconto particolare sembra sovente dare appiglio all’insieme dei contenuti del vangelo, come se ogni membro funzionasse de metonimia per il corpo intero. Ma il loro raggruppamento favorisce la complementarità. Nella sua trama narrativa, l’evangelista li ha collocati per esempio nell’unità di tempo di una prima giornata a Capernaum (1,21-45), in cui la potenza della guarigione trascende le barriere fra i luoghi, smonta i privilegi, intervenendo infatti sia nel privato (la casa di Pietro), sia nel pubblico, quest’ultimo differenziato a sua volta in religioso (la sinagoga) e sociale (la porta della città); l’intera giornata si amplia fino all’indomani come pure all’esterno, quando Gesù esce a notte fonda per proclamare altrove e guarisce un lebbroso fuori dagli spazi di comunicazione. Più avanti, riprendendo per intensificarlo lo stesso movimento che attraversa le distanze, senza annullarle ma combattendo le resistenze, il vangelo espone le guarigioni sulle due rive del mare che separano giudei e pagani così come nello spazio intermedio (4,35 - 5,43); Gesù vi affronta lo scatenarsi della creazione per via del demonio, la sessualità ferita fino alla morte. Con la moltiplicazione miracolosa dei pani (6,30-44 e 8,1-10), le due rive sono ancora interessate dall’atto di nutrire dopo quello di guarire, mentre l’unione dei due gesti si realizza con l’ordine di dare da mangiare a una giovane che Gesù ha appena risuscitato (5,43). Altre due guarigioni di bambini segnano il percorso, in cui la parola di una madre (7,24-30), e poi il grido di un padre (9,14-29) rivelano inattesi modelli di fede. Infine, le guarigioni dei due ciechi che incorniciano il cammino della Passione delineando una progressione: non vedere nulla, vedere qualcosa (degli uomini come alberi che camminano, 8,24), vedere distintamente, vedere e seguire (10,52). Suggeriscono soprattutto che non c’è modo né di capire, né di seguire senza che il Cristo stesso apra gli occhi. Una dimensione metaforica viene così a innestarsi sul linguaggio corporeo (cfr. anche 8,18).
Marco ha fatto lo stesso lavoro di problematizzazione con le parabole, che sembrano trasmettere meno un contenuto di quanto facciano riflettere sull’insegnamento, mettendo in crisi la comprensione. Gesù svela e nello stesso tempo nasconde il Regno che traduce in immagini. Il linguaggio parabolico sfugge a una presa diretta, segna delle discontinuità, invita alla responsabilità di ascoltare, pur rivelando che questo è impossibile all’uomo se non gli viene dato di conoscere il mistero (4,11), se Gesù non spiega nell’intimità ciò che racconta (4,34). D’altronde, accade al narratore di parabole la stessa cosa che accade alle sue novelle: non una “tournée di successi” (C. Senft), bensì il cammino difficile che conduce dall’incomprensione al rifiuto, al tradimento e all’abbandono. Il celebre aforisma di Martin Kähler risalente all’inizio del XX secolo, secondo cui i vangeli sono “dei racconti della passione preceduti da un’introduzione circostanziata”, da un lato si verifica particolarmente per Marco e dall’altro va sfumato. Infatti, fin dai primi scontri con i movimenti religiosi, in occasione delle guarigioni e delle cene che rovesciano la comprensione vigente dei valori e dei ruoli, dei tempi e dei luoghi, il conflitto che si apre porta all’accusa di bestemmia che sarà il motivo della condanna a morte (2,10 e 14,64). E mentre Gesù guarisce una mano paralizzata, facendo scorrere la vita nel centro della sinagoga e nel giorno di sabato (3,1-6), le autorità di questa casa di Dio si allontanano e cercano all’esterno delle alleanze per farlo morire. Così la Passione si annuncia fin dai primi gesti, reinterpretando le vie d’accesso a Dio; come dice la metafora delle nozze, verranno i giorni che lo sposo sarà loro tolto e allora, in quei giorni, digiuneranno (2,20). D’altra parte, il vangelo inizia con la predicazione del Battista, il precursore che prepara il cammino del Signore; che viene poi consegnato quando Gesù inizia la proclamazione (1,14), infine assassinato durante una festa alla corte di Erode, e il racconto narra tutto ciò nel momento in cui il potere di Gesù fa parlare di lui e in cui i discepoli sono mandati in missione (6,14 ss.). Il clima è minaccioso; la Passione accompagna da subito la proclamazione. Ma che una così grande parte del vangelo sia consacrata agli incontri di questo maestro itinerante che insegna, guarisce e nutre, fa molto di più che introdurre al racconto della sua perdita. I suoi atti esprimono i colori del “no” di Dio a tutte le forme di oppressione, di paralisi, di seduzione, di idolatria che alterano la creazione. Affermano il “sì” di Dio alla vita, non si riducono a essere solo una preparazione alla Passione.
Alcune caratteristiche della composizione di Marco
Sono state individuate diverse tecniche dell’evangelista per tessere insieme queste unità narrative ricevute o create:
• strutture concentriche: tramite il gioco inglobante delle correlazioni, si delinea un movimento di convergenza verso un elemento centrale; questo fungerà da rivelatore dell’insieme. Così la serie delle cinque controversie di 2,1 - 3,6, in cui la correlazione tra due guarigioni ingloba quella di due pasti, porta in seno la duplice metafora del vestito vecchio che non si può più riparare e del vino nuovo. Ma il vangelo non si piega interamente a questa modalità di costruzione; la sua strutturazione sembra più complessa. D’altra parte, per questa stessa sequenza di dispute, un incremento dell’opposizione traccia un altro movimento che corrisponde a una progressione drammatica.
• racconti di transizione: un ruolo particolare nell’articolazione delle sequenze è riconosciuto a piccoli episodi, come i racconti delle guarigioni di ciechi, i cui temi e i cui termini si intrecciano con quelli delle pericopi che li precedono o che li seguono. Tra la cecità dei discepoli in mare (8,18) e la capacità di comprendere di Pietro a Cesarea (8,27-30) si inscrive la guarigione del cieco di Betsaida; ma ben presto a questa si contrappone l’ottenebramento di Pietro: malgrado la chiarezza della sua confessione, il discepolo, infatti, non può concepire la necessità della Passione (8,31 ss.).
• drammatizzazione dei racconti: dopo una partenza rapida ci si scopre molto presto già impegnati nella crisi e nella sua violenza; ne scaturisce una soluzione drammatica, ma il finale – nel quale traspare tuttavia un possibile superamento – viene problematizzato. Così è anche per la tempesta calmata (4,35-41), oppure per la parabola dei vignaiuoli assassini (12,1-12). La medesima tensione alimenta d’altronde l’intero vangelo.
• delle incastrature (costruzioni a incastro): certi inserimenti sono maggiori, come la grande sequenza dei dibattiti nel Tempio seguita dal discorso apocalittico (11,27 - 12,37 e 13) inserita tra quello che forse costituiva un racconto primitivo della Passione (l’ingresso trionfale a Gerusalemme con la purificazione del Tempio, 11,1-25) e il racconto della Passione (14 - 16). L’incastrarsi di un racconto dentro l’altro si verifica a livello di unità più piccole, come quello esemplare della guarigione della donna che perde il suo sangue nell’ambito dello spostamento di Gesù verso la casa di Iairo (5,25-34 tra 21-24 e 35-43). Nello stesso modo la concatenazione del processo di Gesù e del rinnegamento di Pietro (14,66-72) lega inseparabilmente le due prove. Oppure, ancora, il discorso apocalittico – innestato sull’annuncio della distruzione del Tempio – è racchiuso tra i doni delle due donne, i soldi della povera vedova nella cassa delle offerte del Tempio (12,41-44) e il prezioso olio profumato sulla testa di Gesù a Betania (14,3-9); i loro gesti tracciano il movimento stesso di sostituzione del corpo di Gesù con il Tempio di Gerusalemme.
• dualità di espressione: gli inserimenti già evocati sono una delle forme di un paradigma di raddoppiamento più ampio, indagato da Frans Neirynck8. Il doppione più evidente è la ripetizione della moltiplicazione dei pani (6,30-44 e 8,14-21), ma sembra che il fenomeno corrisponda a un reale modo di espressione in due tempi, tipico del pensiero e della scrittura di Marco. Gioca su dettagli (“fattosi sera, quando il sole fu tramontato”; 1,32), su frasi, su episodi e forse anche sull’organizzazione stessa del racconto nel suo insieme.
• parole-uncino permettono di unire gli episodi nella successione, in particolare i due brevi avverbi tipici di Marco, subito (Âéı‡) e di nuovo (�żĎèÓ). Reggono la scansione rapida degli eventi, soprattutto il susseguirsi degli spostamenti che danno al racconto un ritmo trafelato. La loro ripetizione finisce con l’essere significativa: in modo complementare, evocano l’immediatezza del dono di Dio che precede ogni sforzo umano, la necessità di ricominciare che strappano al considerarsi possessori o arrivati.
2.4 Prospettiva teologica
2.4.1 Il Figlio di Dio
Il Vangelo di Marco non ne fa un mistero, e neppure ne serba il segreto, e le sue prime parole lo dichiarano: Gesù, di cui andiamo a leggere la buona novella, porta il titolo di Cristo, al quale si aggiunge, secondo i manoscritti, quello di Figlio di Dio. Eppure la narrazione è ricca di domande sulla sua identità. Si sviluppa meno come acquisizione progressiva del sapere, che verrebbe a colmare una mancanza, di quanto non prenda la forma di una messa in discussione di questo sapere, di questo credere già dato. Come se, con l’appoggio di questa prima confessione, occorresse che l’essere umano si interroghi sempre sulle modalità di accesso alla conoscenza, e che sia sul cammino stesso di questo interrogarsi che si scopra capace di un riconoscimento nella verità.
Il percorso della vita di Gesù segue d’altronde lo stesso canovaccio: i segni dell’alterità di Dio in lui, come al momento del battesimo o della trasfigurazione, sono il viatico che permette al Figlio, in un cammino accettato di obbedienza, di attraversare la morte. Il passo della donna che perde sangue può offrire una rappresentazione della ricerca per tappe che il vangelo sembra altresì promuovere (5,25-34): da un bisogno per il suo corpo, la salute intesa come un oggetto del quale prova a impadronirsi di spalle, passa alla relazione intersoggettiva, al faccia a faccia, quando Gesù cerca chi l’ha toccato; poi, finalmente, ella si getta ai suoi piedi e perviene a una parola di verità. Il “veramente, quest’uomo era figlio di Dio” (15,39) del centurione ai piedi della croce, che fa eco al “certamente tu sei uno di quelli” che Pietro nega quando il suo Maestro viene arrestato (14,70-72), delinea la posizione dello sguardo teologico a cui mira il vangelo. L’enunciato del centurione si articola nel presente della verità e nello stesso tempo nello spazio della morte, dell’assenza; esso anticipa così il punto di vista a posteriori del lettore.
2.4.1.1 Squarcio e filiazione
Privo del racconto della nascita e dell’infanzia (Lc. e Mt. risaliranno a quelle origini umili e miracolose), privo dell’evocazione della preesistenza (Giov. celebrerà nel suo prologo questa prima origine), il Vangelo di Marco segue il percorso della vita e della morte di un uomo adulto. Lo inscrive tra due battesimi, quello con l’acqua del Giordano in mezzo a tutta la gente che si raduna, e quello della Passione, secondo la metafora del cammino di esclusione e di sofferenza che Gesù oppone alla gloria alla quale sognano due dei suoi discepoli (“Potete voi bere il calice che io bevo, o essere battezzati del battesimo del quale io sono battezzato?”, 10,38).
Tuttavia, per testimoniare Dio in modo radicalmente nuovo attraverso questa storia che smantella il vecchio mondo, il racconto tende soprattutto il filo conduttore fra due squarci: lo squarcio dei cieli durante il battesimo, attraverso cui passa la voce di Dio che riconosce suo Figlio e la sua gioia, e da cui scende lo Spirito che conferisce autorità a Gesù (1,9-11); poi lo squarcio della cortina del Tempio, nell’ora della crocifissione, quando Dio abbandona il Santo dei santi nell’estremo esilio per non lasciarsi mai più incontrare altrove se non in questo Crocifisso (15,38-39). Fra questi due estremi, nel cuore dell’itinerario e appena prima che volga verso il suo versante d’ombra, un incredibile bagliore di luce sulla montagna della trasfigurazione alza anche il velo sull’identità divina di Gesù (9,2-7). Così, tre momenti di rivelazione scandiscono l’intrigo; sostengono la sua trama, che si fa provocatrice, poiché la terza volta la parola di riconoscimento, che era quella di Dio (1,11 e 9,7), si sposta non solo sulla bocca di un uomo ma addirittura su quello di un pagano (15,39). I discepoli – rappresentati dal trio degli intimi (Pietro, Giacomo e Giovanni) – sono testimoni solo della visione intermedia; la prima rivelazione (1,11) precede la loro vocazione e si rivolge solo a Gesù; l’ultima (15,39) segue il loro abbandono e non trova destinatari tra i personaggi del racconto. Solo lo sguardo del lettore abbraccia tutto il quadro. Ai suoi occhi, la parola di Dio che all’inizio, durante il battesimo, designa Gesù per proclamare il vangelo e guarire e che, in seguito, nella trasfigurazione, invita i suoi discepoli ad ascoltarlo quando annuncia la necessità della sua Passione, si reinterpreta infine con forza nella fragilità della croce: nella povertà priva di segni di una morte nell’abbandono di Dio, un uomo decifra il segno di Dio. La filiazione si fa riconoscere nel seno stesso dell’abbandono. Da quel momento, i discepoli dovrebbero poter agire con risolutezza sulla base di un sepolcro vuoto; i lettori dovrebbero poter credere a partire da un vangelo interrotto nel finale dall’angoscia, dalla fuga e dal silenzio (16,8).
Gli altri titoli sostengono lo stesso progetto teologico. La figura del Figlio dell’uomo, ereditata dalla letteratura profetica, poi privilegiata da quella apocalittica (in particolare Dan. 7) come figura celeste della fine dei tempi, all’inizio avvalora gli atti d’autorità di Gesù sulla terra (2,10.18-20.27; 3,4), ma con la seconda parte del vangelo viene ridefinita nell’ambito del servizio (10,45 e gli annunci della Passione). L’attesa della venuta del Figlio dell’uomo sulle nuvole del cielo è trasmessa come attraverso una passione del mondo (13,26); l’annuncio, al processo, della visione del Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza (14,62) affretta la condanna a morte.
è nella confessione di Pietro a Cesarea (8,27-30) che il titolo di Cristo viene riconosciuto a Gesù; segna il culmine del racconto e il suo cardine. Pietro riconosce l’identità messianica, ma sprofonda nella tentazione quando rifiuta la definizione che questa giusta denominazione assume nella storia: un Cristo rifiutato, della sofferenza e della morte. D’altronde, tutta la narrazione, poiché così numerosi episodi cominciano con uno spostamento, ne ha già fatto un Cristo delle partenze: che parte per nutrire nel deserto, che parte e attraversa il mare per guarire, che parte per morire da re schernito nella sua città. E la fine del primo giorno di guarigione, durante il quale esce per proclamare altrove il vangelo, mentre i discepoli si mettono a cercarlo (1,35-39), può anticipare l’ultimo atto, la sua risurrezione, che lascia un sepolcro vuoto e dei testimoni sgomenti. Il corpo mancante dal sepolcro richiama allora i suoi discepoli all’esterno, in Galilea, non tanto per un’attesa della parusia quanto per iniziare a formare il corpo della sua chiesa nella storia.
2.4.1.2 Critica delle immagini di Dio
Così, mediante la sua cristologia, il Vangelo di Marco problematizza ogni accesso al vedere e al sapere. La sua sfida lanciata alla parola facile si è spinta fino a mettere in bocca ai demoni la confessione di fede (1,24; 3,11; 5,7). Vi è dunque un modo demoniaco di dare la buona risposta. Nessun sapere protegge dal possibile pervertimento del suo utilizzo. Il credente è in tal modo interrogato non solo sul contenuto della propria fede, ma nella sua autenticità di soggetto confessante. Tuttavia se la risposta troppo diretta è sottoposta a critica, la possibilità di una risposta indiretta è altresì esplorata dal racconto: i discepoli si chiedono cosa significa risuscitare dai morti, quando Gesù impone loro il segreto sulla visione della sua trasfigurazione “fino a quando il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti” (9,9. Si tratta dunque del racconto della guarigione di un figlio degli uomini, il ragazzo epilettico, che ne propone una rappresentazione pregna di indole umana poiché il testo presenta il ragazzo come se fosse morto e richiama i due verbi della risurrezione per raccontare che Gesù lo solleva (9,27). Allo stesso modo anche le apparizioni, assenti nella risurrezione, sono come anticipate dal cammino sulle acq